Viola Marietti debutta – al Teatro Franco Parenti – con un testo manifesto degli ultimi millennial, e un talento d’attrice da non perdere di vista
Ho aspettato il futuro cincischiando come un’adolescente, con l’insana, disneyana certezza che sarebbe andato tutto bene. Se non puoi cambiare quello che sei, giocalo. E nel gioco del teatro non si fanno prigionieri. Soprattutto, non se stessi.
Non resta che avventurarsi, lanciarsi, ALDST: al limite dello sputtanamento totale. Lo fa Viola Marietti, che debutta al Teatro Franco Parenti fino al 12 settembre come drammaturga e protagonista, sola in scena, di un testo che più che dello “sputtanamento” ha i connotati dello specchiamento. Proprio, personale, ma soprattutto di un’intera generazione.
Quella che forse non ha nemmeno un nome, se è vero che i millennials ormai hanno famiglia e la generazione X ha conosciuto soltanto il secondo millennio. Nel mezzo restano i nati nel pieno degli anni Novanta, che hanno sviluppato una propria grammatica, una postura, e soprattutto delle idiosincrasie, che li fanno riconoscere. E se sei uno di loro l’angoscia del vuoto e la morsa del senso di fallimento sono la voce con cui sei abituata a convivere come un fastidioso, penetrante acufene.
Ed è di tutti, quella madre che piange di fatica e bisogno di farsi comprendere (e desiderio, in realtà, di essere la mano giusta per accompagnare alla vita adulta), quel padre – sono stata anch’io bambina, di mio padre innamorata… – che sa. Almeno lui lo ha capito, come si vive. Però per spiegarti come si cambia una lampadina deve partire dal Big Bang. Ce l’abbiamo tutti, la sorella di una generazione diversa, quella che è già diventata adulta, nonostante tutto. E quella più piccola, che le macerie su cui cammina le ha viste da subito, e ha già imparato a prendere le distanze (possibilmente misurate in migliaia di chilometri).
Viola Marietti li prende e li porta in scena, li veste di una maschera e ce li restituisce, regalando una risata piena, intelligente, di grande acume – e i tempi comici (e non solo) sono invidiabili – della nostra vita di ogni giorno. La nostra famiglia normale, normalmente vincente. Quella che non ti permette – meglio, per cui tu non ti permetti – di sentire dolore, perché non ti manca niente, di che ti potresti mai lamentare? I genitori che ce l’hanno fatta, con le loro forze o la benevolenza della sorte, ma sapendo di averne avuto lo spazio. Quello spazio che alla generazione post millennials è precluso. Per ragioni sociali ed economiche, certo, ma non solo. Nel mezzo della risata che sfiora la stand up comedy la precisione di Marietti nell’analisi è chirurgica e brutale.
Sono, soprattutto, ragioni culturali. Perché sono cresciuta con la convinzione che il mondo mi dovesse qualcosa per il solo fatto di essere nata. Siamo stati allevati con la spocchia di poter fare della propria vita un capolavoro. Un mantra papale, in effetti, e forse centra qualcosa con il sentire di nuovo il bisogno di Dio, dopo lo sforzo di chi ci ha insegnato a dimenticarlo. Sappiamo che quel capolavoro non possiamo, forse non vogliamo più cercarlo. Eppure Marietti è lì a restituire, se Dio e il futuro non esistono più, a noi che pensiamo di non aver niente da dire, la dignità di uno spazio di racconto.
Lo fa trovando una voce, la sua. Una voce che ha esattamente il tono dei suoi coetanei, non lo imita e non lo cristallizza, e ha una lingua che tende alla raffinatezza di una scrittura sapiente senza mai cercare di diventare sfoggio. La sostiene una prova d’attrice che alla prima scommessa del palco in solitaria è già matura, e danza con destrezza dal registro comico all’intensità di quella autentica disperazione, nient’affatto teatrale, che ti lascia il momento in cui non trovi il senso di svegliarti al mattino o quello in cui perderti dentro a un bicchiere senza nemmeno sapere perché.
Non è la posa di bambini non ancora cresciuti, questa immagine – tagliata dalle luci di Gabriele “Gerets” Albanese – una ragazza disgustata da tutto quel che le concerne sottona, servile e in costante bisogno di attenzione. ALDST non è la lamentatio collettiva di una generazione morsa alle caviglie dalle manie di persecuzione, visto che lo sappiamo: a nessuno importa abbastanza di te da avercela con te.
Piuttosto è la fotografia cinica e dolcissima – con l’attenta regia di Matteo Gatta – di una presa d’atto collettiva di promesse non mantenute, innanzitutto a se stessi, di un’attesa senza fine di quello che avremmo dovuti essere. E allora stiamo, nel limbo di chi cerca un amore che non sa parlare, di chi ancora non sa fare né la differenza né la differenziata.
Se c’è qualcosa che il non avere certezze ti consegna, infatti, è la consapevolezza che stare altrove non basterebbe. Che anche se tu diventassi chi promettevi di essere, forse non cambierebbe niente. Che dopo la mezzanotte, il risveglio della fata consegna comunque alla vita per com’è. E che non è meno vita, comunque. E allora, forse, accettarlo non è arrendersi ma il suo contrario: smettere di scappare da chi siamo e dal luogo da cui veniamo e trasformarlo in una rampa di lancio, per alleggerire la zavorra, e scoprire che la forza nelle gambe, o nelle ali, forse c’è.
E allora che lo lasci, che lo crei, anche il teatro italiano, lo spazio per questi giovani artisti che lo spazio se lo creano, come la compagnia Tristeza Ensamble. Usi questo tempo di rinascita per non ricadere in quel che crede sicuro, e bussi alle porte di chi si riconosce nell’oggi e lo sa raccontare. Perché le idee ci sono, la tecnica c’è, la forza nei muscoli del talento c’è. Viola Marietti ce l’ha. Il volo, o il viaggio, è appena cominciato.