Donne in musica 1/ Kaija Saariaho, la compositrice che viene dal freddo

In Copertina Musica

Vincitrice del Leone d’oro alla carriera, la musicista finlandese ha sempre trovato nel mondo orchestre, direttori, cantanti interessati alla sua musica. Legata agli “spettralisti” , ha una predilezione per le microtonalità e un’affinità speciale per la voce. Alla Biennale Musica un’occasione imperdibile per ascoltare alcune delle sue composizioni più significative ed emozionanti

“La mia musica ha avuto molto successo e io penso nonostante il fatto che sia donna, mentre i miei colleghi hanno sempre pensato che chiaramente fosse perché io sono una donna”.  Dice il vero, Kaija Saariaho, finlandese, classe 1952: in ogni parte del mondo la sua musica ha sempre trovato orchestre, direttori, cantanti e registi che la chiedevano, e ovunque pubblico conquistato dalle infinite nuances della sua scrittura così avvinta ai misteri del Suono.

Non meno vero è che l’essere donna sia il carattere dominante nel mondo musicale di un’autrice che si è ritagliata sulla scena contemporanea uno spazio inimitabilmente suo con schiva perseveranza, perché “comporre è un lavoro molto solitario, e lento, che chiede pazienza”. Così, chiamatela “compositrice”, come reclama lei che ha vissuto per anni a Parigi (ma anche all’italiana), “perché questo termine non funziona in maniera così eloquente in altre lingue. In inglese, dovresti dire a woman composer, ma non hai mai bisogno di dire a man composer”. It’s the same old story.

Venerdì 17 settembre, Kaija Saariaho riceve a Venezia il Leone d’oro alla carriera. Non è il suo primo riconoscimento – ne ha raccolti molti in almeno quarant’anni, dall’Europa al Giappone agli Stati Uniti –, ma il Leone corona la sua storia personale nel luogo più simbolico e nel contesto più adatto a celebrarla. L‘edizione 2021 della Biennale Musica, la prima della nuova direttrice Lucia Ronchetti, ha un segno femminile indiscutibile: nel tema “Choruses, Drammaturgie vocali”, diverse compositrici di varie generazioni ambientano le loro sperimentazioni negli spazi della città che nel  Cinquecento e nel primo Seicento ha imposto un suo mitico primato nella scrittura per voce e per cori di ogni tempo.

La luce del Nord
Non viene da famiglia di musicisti, Kaija Saariaho, “la musica era il mio giardino segreto”, ma studia violino dai sei anni, pianoforte dagli otto, e chitarra, per poi dedicarsi solo alla composizione. I musicisti della sua generazione avevano un punto di riferimento inevitabile, i corsi di Darmstadt, cui Kaija non sfugge, correggendone però sudditanze e insegnamenti. “Era un ambiente più libero di quanto siamo  soliti associare a quel nome”, ma per parte sua, evita ancor più gli estremismi ideologici di quel modello per le amicizie e gli esempi che sceglie. “Nel 1980 ho incontrato lì gli spettralisti”, ed è a Gérard Grisey e Tristan Murail che lega più strettamente i suoi interessi. Sono gli “estranei” alla corrente postserialista, divenuta dominante, a interessarla e coinvolgerla: sono le sperimentazioni che sezionano fin nelle più minute particelle il suono a mostrarle la strada che seguirà sempre, con e senza gli strumenti elettronici, che coltiverà sempre. Da quei modelli alternativi al mainstream della musica contemporanea viene la predilezione per le microtonalità, per suoni e colori che stanno “tra” le note, “reinventando la forma a ogni pezzo”. Di qui la “mia affinità speciale con la voce – tema della Biennale 2021 e motivazione del Leone d’oro – e la mia personale predilezione per i testi”. Perché “la voce è la più ricca forma di espressione: lo strumento è nel corpo di un essere umano e ci sono tante cose che non possono essere falsificate quando si usa la voce”. Di qui anche un grande “amore per Berio”, ma anche tanto tempo dedicato a trovare una propria libertà nell’uso della voce, distante dalla via che d’après Berio si riteneva l’unica possibile”.

Parigi è la città d’elezione negli anni della ricerca matura, e il francese la lingua coltivata per molto tempo (“ma ora mi fermerò col francese, ho scritto già troppo”). Quando è in Germania, Kaija Saariaho  compone in tedesco, a New York in inglese, perché è “il linguaggio che mi sta attorno nella vita di tutti i giorni a influenzarmi”. 

E su tutto, la Natura e la luce del nord. “Credo che ci sia del vero nel legame che corre fra la natura e la Finlandia. Ma la luce è più importante. I cambi di luce durante il corso dell’anno sono così drastici da imporsi a chiunque. Deriva dall’esperienza del vivere nel periodo dell’oscurità – il kaamos in finlandese – che trattiene per tanto tempo la speranza che la luce del sole cominci a lottare per essere completamente ristabilita… Il mio rapporto con la natura non è tanto di ammirazione estetica per un tramonto, è qualcosa di molto più fisico”.

Voce, elettronica, teatro
Dei quattro pezzi che Kaija Saariaho presenta alla Biennale, uno solo è strumentale, Notes on Light per violoncello e orchestra, scritto nel 2006 (venerdì 17 alla Fenice, alle 20); pezzo bellissimo in cinque movimenti, di carattere insolitamente energico e quasi ossessivo. Nella musica di Kaija Saariaho predominano in genere un’ampia distensione tra silenzio e silenzio, come in Terra memoria, pezzo per quartetto e/o per complesso d’archi dedicato a “coloro che se ne sono andati”. A vite compiute, finite, che non hanno più nulla da dire e invece vivono nei nostri ricordi, che mutano nel tempo. 

Gli altri tre rientrano in forme diverse nel tema vocale della rassegna: Only the Sound Remains, opera da camera in due parti per soprano, mezzosoprano, tenore e basso, in cui trovano spazio essenziali coreografie (sabato 18 al teatro Malibran, ore 19), Reconnaissance – Rusty Mirror Madrigal per coro, percussioni, contrabbasso, scritto nel 2019, in prima assoluta, e Tag des Jahrs per coro e live electronics del 2001, in prima italiana (entrambi all’Arsenale venerdì 24, ore 18).

Di questi, Only the Sound Remains è il lavoro che racconta in forma più complessa il mondo di Kaija Saariaho. Segue tre altre opere per il teatro: L’Amour de loin (“che credevo fosse la prima e anche l’ultima”), su libretto di Amin Maalouf, basata sulla vita del trovatore Jaufré Rudel, grande successo di Salisburgo 2000 con la regia di Peter Sellars; Adriana Mater, sempre su libretto di Maalouf e ancora regia di Sellars, andata in scena alla Bastille nel 2006, ed Emilie, scritta per Karita Mattila e allestita a Lione nel 2010. 

Only the Sound Remans – quasi un manifesto – fu pensata quando Kaija Saariaho era “in residenza” a New York, nel 2011. “Ero alla ricerca di materiale per scrivere un pezzo commissionato dalla Carnegie Hall. Mi orientai verso i Cantos di Ezra Pound, ma Peter Sellars ricordò di aver studiato alcuni suoi lavori adattati dal Teatro Noh. L’economia dello stile di Pound, che lascia molto spazio alla musica, mi sembrò ideale”. Così i testi scelti furono Tsunemasa e Agoromo, che Pound tradusse grazie al lavoro di un pioniere negli studi della cultura giapponese, Ernest Fenollosa. Only the Sound remains si consegna idealmente nelle braccia di Venezia, perché è qui, in questa Biennale Musica, che viene eseguita per la prima volta in Europa, e perché Ezra Pound è stato “veneziano”, con casa in Dorsoduro, e oggi riposa nel cimitero di San Michele, vicino a Stravinsky, a Diaghilev, a Luigi Nono, a scrittori, artisti e uomini di cultura che hanno scelto la laguna come ultima stazione del loro passaggio sulla terra. 

N.B.

Due commissioni femminili muovono le ali attorno a Kaija Saariaho in questa Biennale Musica: Il viaggio della voce che Christina Kubisch ha progettato per voci registrate e diffuse nella Basilica di San Marco, con pezzi  suoi e di maestri della Scuola marciana – Willaert, Andrea e Giovanni Gabrieli, Claudio Merulo, Claudio Monteverdi – (martedì 21 settembre  alle 21);  moving still – processional crossing per quattro voci ed ensemble vocale di Marta Gentilucci (giovedì 23 settembre al Teatro delle Tese dell’Arsenale).  Anche grazie a loro, dopo questa Biennale Musica, sarà una colpa non sapere chi sia Kaija Saariaho e di quali sortilegi sia capace la sua musica.  

Immagine di copertina: Kaija Saariaho / © Maarit Kytöharju

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