L’adattamento di Carlo Boso, supportato dai bravi interpreti di Compagnie Romantica e CTU Cesare Questa, valorizza l’iniziativa di Atelier Teatro che porta spettacoli nelle piazze della periferia milanese
Teatro nel teatro. Non v’è differenza – e forse non ve n’è mai stata – tra i due dispositivi che si incrociano, a Piazzale Segesta, a qualche km di distanza da quelle vie in cui i grandi teatri, seppur fiaccati dal Covid, dispiegano i loro (bei) programmi.
Però quello che fa Le mille e una piazza, l’iniziativa di teatro popolare organizzata da Atelier Teatro (e di cui vi abbiamo già parlato in passato) è lievemente diverso.
Perché nel cuore delle piazze milanesi di periferia restituisce il teatro, nella sua dimensione più di corteccia, più essenziale, più pura, a spettatori e spettatrici di ogni età e provenienza.
Dice: c’è già il teatro normale per quello, ed è vero. Differente, però, è l’esperienza: per quanto sia inimitabile e meraviglioso ogni accesso in sala, assistere a un’opera in mezzo a pupetti e pupette che intervengono con rispetto, che incitano i personaggi, mentre tutt’intorno genitori e passanti si fermano per assistere, dall’inizio o in medias res, è interessante e significativo.
Significativo perché dimostra quanto in fondo ogni cosa che viene rappresentata sulla scena è valevole d’interesse; nel caso specifico, una delle opere affidate alle compagnie che hanno aderito a Le mille e una piazza, I gemelli (ispirata a I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni), ben si presta a essere fruita da un pubblico dinamico e turbolento – con simpatia.
L’opera, adattata e diretta da Carlo Boso e affidata al talento dei componenti di Compagnie Romantica e CTU Cesare Questa, è fuggevole e vocata al concetto di doppio, in questa Verona in cui due fratelli non sono mai davvero solo fratelli, in cui una donna non è soltanto una figlia, in un vortice di relazioni e legami che Goldoni è stato maestro nel tessere (c’è bisogno di dirlo?) e che Boso affida a una compagnia affiatata e in grado di gestire parimenti molteplici personaggi e combattimenti raffinati.
Il cast (Michele Pagliaroni, Emanuele Contadini, Erika Giacalone, Alessandro Blasioli, Viviana Simone) supera e si accontenta, allo stesso tempo, del concetto di maschera, dei limiti del corpo e di quelli della menzogna, viaggiando tra il tempo goldoniano e quello della burla disincantata del contemporaneo – non a caso Boso li fa entrare sul palco cantando Chissà se va, cantata da Raffaella Carrà: meglio un capitombolo, che non buttarsi mai, ma intoneranno anche Caruso
E, al di là dei meriti scenici e drammaturgici di Boso e del suo cast, sorprende come, ancora una volta, il furore di chi guarda dalla piazza sia in grado di riportarci indietro di cento, duecento, trecento anni, oltre le pandemie, verso sensazioni che non abbiamo mai provato se non quando ne abbiamo letto, dritti dritti in odore d’emozione e di nostalgie romanzate. Retorica? Forse. Avercene, però, di sensazioni così.