Un padre terribile, un figlio prediletto (che muore). Un riottoso impresentabile che prende il potere. Un mondo fondato sul danaro dove ogni legame appare contaminato. E dove la catena di causa ed effetto connette un piccolo supermercato del Meridione all’Iraq, alla Cina, al mondo. Giancarlo Liviano D’Arcangelo inventa un poderoso romanzo cosmogonico, con echi biblici e mitologici. Per parlare di etica e di economia.
Un padre, un figlio prediletto, un secondogenito in tutto e per tutto non consono alle aspettative, un impero costruito sulla scaltrezza e il cinismo, l’etica demolita fino alle fondamenta, la violenza in ogni atto e in ogni pensiero, i soldi – a fiumi -, l’incapacità di frenare l’avidità fino al sacrificio estremo di ogni legame.
La foto del microcosmo con tentacoli la scatta L.O.V.E., il romanzo di Giancarlo Liviano D’Arcangelo, pubblicato da Il Saggiatore e finalista al Premio Biella, e potrebbe facilmente (tragicamente) attagliarsi al profilo di tanta storia italiana degli ultimi sessant’anni.
Ambientato in una ipotetica Villalibera, paesone sorto alle propaggini dell’Italsider nel tempo disordinato del boom economico, il racconto della nascita, della crescita, dell’affermazione e dissoluzione della famiglia Giordano si dirama dalle scelte del suo antieroe fondatore, Italo.
Già i nomi dei protagonisti e il loro sistema certificano, in controluce, che siamo nel contesto di una storia di ri-fondazione, ovvero di un romanzo cosmogonico: Italo Giordano, sorta di novello Enea, è figlio di una Venere (per sempre lontana nella sua incomprensibile divinità, come lontana sarà la possibilità del ruolo femminile in un sistema tutto coniugato dai maschi) e di un più modesto, benché ambizioso, Luigi.
E proprio come Enea non si risparmia in rapine, guerre, patti con mostri e riduzioni alla schiavitù pur di spianare la strada a quello che diventerà il regno e poi l’impero, allo stesso modo Italo Giordano persegue il suo progetto di competizione universale per la fondazione della propria ricchezza, viatico all’aspirata memoria eterna per il suo nome.
E questo è il primo e più sostanziale ribaltamento di questo poderoso lavoro di Giancarlo Liviano D’Arcangelo: lì dove l’acronimo del titolo, L.O.V.E., una volta sciolto, si rivela come un sistema orientato su punti cardinali totalmente opposti a quanto si potrebbe di primo acchito pensare, ovvero: Liberta, Odio, Vendetta, Eternità.
“La ragione economica è stata l’unica guida, la vera forza determinante, il sole divino e la tirannia, l’istinto di sopravvivenza e il desiderio ineffabile”
A prendere parola, da subito, è l’impresentabile: il figlio minore, sensibile, obeso, vergine e, aggravante imperdonabile, non interessato alla smania per l’arricchimento che muove in primis tutta la linea maschile della famiglia, per contaminare poi le donne e inquinare infine ogni legame sociale, a tutti i livelli.
Giordano di nome e Giordano di cognome: fluido per natura e biblico per memoria, è la fonte dell’altro ribaltamento prospettico su cui poggia il romanzo.
Come ne L’elenco telefonico di Atlantide di Tullio Avoledo, come l’Oscar Wao dell’omonimo romanzo di Junot Diaz, Giordano Giordano entra di diritto nella galleria dei protagonisti sovrappeso chiamati a sostenere sforzi epici di sovvertimento: ma mentre la natura di quelli era nascondersi agli altri, qui ci troviamo invece nel mezzo di una lotta immane per raggiungere il distacco sugli altri stando in una posizione di evidenza.
Se, dunque, la vita oscilla tra il sublime e l’immondo, fino alle radici scende Giordano per estirparsi, poiché L.O.V.E. è fondamentalmente la storia di una atroce distorsione: quella che si crea nella vita di un uomo che viene scientemente privato di amore, disprezzato, compatito, brutalizzato dallo stesso padre che lo ha fisicamente creato per rigettarlo.
“La desideravo davvero una lacrima. Mi sarei accontentato anche di un rantolo di commozione, o di un singhiozzo, o persino di una vaga idea di devozione per tutto ciò che di materiale mio padre mi aveva offerto nella vita. Eppure niente, nulla nessuna tachicardia, nessuna emozione. Ancora una volta soltanto il vuoto”
L’uccisione di un padre che ha depredato ogni particella di umanità al tempo del proprio figlio avviene così attraverso le sue stesse armi: l’appropriazione del potere. Così, partendo dal funerale paterno, la narrazione scorre all’indietro, ripercorrendo quelle che sono state le tappe del successo (e della dannazione) di Italo Giordano e, contemporaneamente, della espropriazione e rinascita di suo figlio.
Dalla vendita ambulante al piccolo negozio, dal piccolo negozio al supermercato, dal supermercato alla catena: di plastica è fatto l’impero, e sulla plastica galleggia e poggia, governando il desiderio del possesso dei sottoposti, mentre nel suo cono d’ombra avvengono gli illeciti, i traffici, i magheggi, gli abusi che permettono a Italo Giordano di ingrandire e fortificare la propria influenza.
Mio padre, da uomo arricchito, aveva instaurato un regime di eterno doppiogiochismo con le istituzioni.
Alimentarle con le donazioni. Dichiararne l’imprescindibilità attraverso i media. Riconoscerle come strumenti di public relationship. Codificarle. Criticarle su quegli stessi bracci armati, per camuffare il compromesso conservatore. Promuoverle come modelli. Mostrarle come fondamenta della nostra vita. E tutto nella più scintillante esteriorità, in modo da umiliarle nell’essenza usando la strategia delle apparenze, che vince sempre. Impossessarsi del Leviatano, mimetizzarsi a lui. Fare del Leviatano il garante del contratto sociale il quartier generale e il mezzo più efficace per disgregare ogni contratto sociale, ecco dove il capitale non si era mai spinto. La lotta di classe dei capitalisti ha sconfitto persino la guerra fredda.
Ne esce il ritratto di un padre irriducibile, non studiato, dotato di un istinto ferino, iracondo: un padre che si muove sulla “sua” terra come come un dio, ma del male, forte della sua precisa visione del mondo: il denaro è l’unico vero denominatore comune dell’umanità.
Ed è il denaro che conduce in Iraq, dentro il mattatoio della guerra vista come luogo di un lucro ancora e sempre possibile.
Sia per mancanza di pietas , sia per delitto di tracotanza, la terra dell’escalation, l’Eldorado nutrito di sangue umano si rivelerà per Italo Giordano il luogo della perdita: l’unica imperdonabile impensabile frattura a una pretesa invincibilità.
Il prediletto, la primogenitura fatta a immagine e stampo, muore per identica protervia.
E dunque tocca affidare il potere alle mani dell’inadatto.
Sopravvissuto alla delusione e alla colpa dell’essere rimasto vivo (“Perché non sei morto tu Giordano? – rincara la madre – Avrei sofferto anche per te, ma di meno. Di meno”.) Giordano attraversa la cerimonia del funerale del fratello (con il quale ha condiviso al massimo l’afasia) come un rito rivelatorio: il contagio della ricchezza è ovunque, non c’è alcuna possibile accoglienza nella parte femminile della famiglia, mercificata essa stessa.
Estirpato ogni sentimento, le donne sono puro decoro, la sola intelligenza che viene loro concessa è per la sanguinosa lotta per il raggiungimento del mantenimento. Una volta conquistato, la volontà risulta piegata:
“Il contributo che l’intero entourage familiare governato da uomini si aspettava da loro era l’esibizione del dolore. Con femminilità e commozione”
Evidente che in questo universo di relazioni desertificate ogni reazione (anche catastrofica, estrema, disassata) manifestata senza contenzione diventa per Giordano la fonte di una attrazione potentissima. E così è per Erica, la moglie di suo fratello, che – sgombrato il campo una volta rimasta vedova – da segreto desiderio diventa l’oggetto di una ossessione masochista, di un vassallaggio malato: una imago Virginis distorta che più alza la posta più si trasforma in mania.
Ambire al possesso eterno di un altro essere umano, del suo corpo e della sua essenza. Ambire al possesso di ogni ventricolo nervoso, cardiaco e cerebrale. Aver innalzato dal nulla un impero economico era un risultato davvero insignificante al confronto dell’impresa che mi ero prefissato, e ogni mio passo era guidato da un pregiudizio d’innocenza.
Così comincia la terza vita del romanzo di Giancarlo Liviano D’Arcangelo: quando anche il patriarca muore, l’inadatto si dedica, con intelligenza e crudeltà, a ricalcare i passi di chi è stato prima. E gli esiti saranno sorprendenti.