Riprendere in mano un romanzo dopo aver visto il film – in questo caso ‘Tre Piani’ di Eshkol Nevo portato al cinema da Nanni Moretti – fa riscoprire i motivi per cui lo abbiamo così tanto amato
A fine proiezione, la prima domanda che mi sono fatta è stata: che libro ha letto, Nanni Moretti? E subito dopo: ma quale ho letto io? Perché la memoria, si sa, fa strani scherzi, e forse ricordavo male.
Ma sentivo anche che la grande differenza fra il romanzo Tre piani di Eshkol Nevo e il film omonimo del regista romano non verteva tanto sulla trama completamente rimescolata (nel libro tre monologhi per tre capitoli, nel film tre storie che parzialmente si intrecciano, il romanzo ambientato a Tel Aviv, il film a Roma) ma su qualcosa di più profondo.
Così ho ripreso in mano il volume e ho riletto le pagine che tanto mi avevano colpito e commosso anni fa.
Cominciamo dal protagonista del primo capitolo, che nel film è interpretato da Riccardo Scamarcio. Un uomo, soprattutto un padre, ossessionato da quello che potrebbe essere successo alla figlioletta affidata a un anziano vicino di casa e ritrovata molte ore dopo con lui, palesemente disorientato, in un parco cittadino. Nel romanzo l’uomo confida a un amico i suoi dubbi, le sue paure. Esagera, certamente, nel disegnare cupi scenari, ma non arriva al parossismo del suo alter ego cinematografico che accusa platealmente il vecchio di violenza carnale, arrivando perfino ad aggredirlo quando giace inerme all’ospedale. E la seduzione della giovane vicina di casa, nipote del vecchio, di fatto non c’è, tantomeno il processo che, nel film, ne consegue. Tutto, sul grande schermo, è esasperato, così come la recitazione di Scamarcio. Il personaggio del romanzo è un uomo in crisi, che si sfoga con un amico, gli chiede aiuto perché nutre dubbi non solo su quello che è successo a sua figlia ma anche su sé stesso, quello del film è tetragono nelle sue incrollabili convinzioni.
E che dire della protagonista del secondo capitolo, nonché abitante del secondo piano? Anche lei ha un’amica alla quale confida, per lettera, i suoi problemi: un marito assente, troppo spesso lontano da casa per lavoro, la fatica di allevare i figli da sola, il rimpianto per quella che sarebbe potuta essere la sua vita se avesse perseguito le sue passioni e non solo i doveri. E poi il racconto delle sue visioni (un barbagianni che la scruta), il timore di andar fuori di testa, forse di esserci già andata. Ma come sono leggere le sue parole, ironiche, perfino allegre mentre descrive il suo crescente disagio. Che sarà di lei? Eshkol Nevo non ce lo dice. Nanni Moretti, invece, sì: la donna, che mostra via via segnali sempre più preoccupanti, è pazza (come sua madre) e un bel giorno sparisce salendo su un treno per destinazione ignota.
E veniamo al terzo capitolo, o piano. Il più bello, per me, nel romanzo ma soprattutto nel film. Merito di una straordinaria Margherita Buy e del suo personaggio, questa volta aderente a quello del romanzo: una donna che è stata troppo moglie e troppo poco madre, vittima consenziente di un marito padrone che ha posto la legge dei codici (è stato un giudice, come la moglie) molto al di sopra di quella del cuore. Ma perché, a mio parere, è così bella e forte questa parte del film? Per l’empatia che finalmente si scorge fra il regista e il personaggio. La figura del marito, interpretata dallo stesso Moretti, poteva non esserci, poteva essere evocata, come nel romanzo, dal dialogo che finalmente la donna inizia a tessere con lui solo dopo la morte di lui, registrando i suoi pensieri, i suoi pentimenti, le sue speranze a una segreteria telefonica che nessuno ascolterà più. Per la prima volta riesce a rimproverare quell’uomo tutto d’un pezzo. E a perdonare il figlio che tanto aveva deluso lei e il marito e che ha iniziato una vita, certamente più serena, lontano da loro. Riesce a perdonare anche sé stessa e a darsi la possibilità di un futuro, forse di un nuovo amore.
Ecco cosa mancava alle altre parti del film: l’empatia, appunto, che invece pervade il romanzo. Perché Eshkol Nevo racconta, suggerisce ma non giudica, lascia a noi il compito, non sempre gradevole, di entrare in sintonia con i personaggi, capirli o condannarli, soffrire o irritarci per le debolezze umane, troppo umane, loro e nostre.