Il dramma verdiano messo in scena da Davide Livermore e diretto da Riccardo Chailly ha una fortissima carica cinematografica, che sul piccolo schermo assume tutta la sua valenza bifronte. Tanto da chiedersi se gli spettatori a casa abbiano visto lo stesso spettacolo di quelli a teatro
Il primo lampo nella sera della Scala scocca alle diciotto e zero uno. Non è per Verdi, né per Riccardo Chailly né per Davide Livermore, né per alcuno dei quattro solisti da poker servito. L’applauso di lunghezza quasi polemica è verso il bianco profilo di Sergio Mattarella che si affaccia al palco reale prima dell’inno. Non è cosa nuova né sorprendente: è successo ogni volta che il Presidente in carica ormai da sette anni ha deciso di sostenere teatri e cultura con il semplice esserci. Spesso da solo, sempre più assiduo di premier e ministri.
Che fosse il suo ultimo Sant’Ambrogio non era decisivo, ieri, per giustificare la forza del consenso. C’è del metodo in tutto questo, e un carico di storia. Anche un teatro “per ricchi” (borghesi) non ha perso il sano vizio di “fare politica”, ieri tramando dai palchi contro chi comandava sulla Patria oppressa di cui canta anche il Coro di Macbeth, oggi lanciando gradimenti o messaggi ai mediocri che non sanno dove stiano le radici e dove si coltivi la grandezza della povera patria. Quanto il Teatro d’Opera sia ancora stretto alla vita civile lo si misura da questi segnali, prima ancora degli sforzi, indiscutibilmente necessari, di accordare la parola e la musica di ieri alla realtà di oggi. E qui siamo al punto di questo Macbeth anno 2021.
Lo spettacolo ideato da Davide Livermore, con l’aiuto fedele di Giò Forma (scenografie), Gianluca Falaschi (costumi) e Antonio Castro (luci), si è assunto la missione di collegare il 1847/65 di Macbeth alla realtà di oggi, anche aumentandola, grazie ai video di D-Wok. La narrazione di questa regia immersa in un impianto a forte, fortissima carica cinematografica, è rimbalzata ovunque. Al punto quasi da sconsigliare qualunque giudizio, a cose fatte. Ma lo spettacolo l’hanno ormai visto quasi quattromila persone “in presenza”, tra anteprima giovani e serata di gala, e qualche milione sul televisore di casa. E il quesito è: hanno visto la stessa cosa?
Livermore ha deciso che il “calle pien di misfatti” verso il potere, che Macbeth riempie di sangue grazie al coraggio che la sua donna gli infonde, sia un “incubo”. Non è eccessivo né insensato, perché gli assassinii prima di re Duncan, poi di Banco, poi di moglie e figli di MacDuff per impadronirsi del trono di Scozia e poi conservarlo contro ogni decisione del destino, sia in Shakespeare sia in Verdi si consumano in notti “orrende” con corredo di “lamentose voci” e orchestra di colori sinistri.
Livermore immerge questo incubo in una ravvicinata replica di ambienti e climi del film Inception, nel quale un campionario di effetti speciali che hanno fatto storia, aveva lo scopo di calare lo spettatore nell’ansia dei protagonisti, scaraventati letteralmente tra pareti instabili e flessibili che collegavano, senza dividerli, sogno e reale.
Nello spettacolo della Scala rivediamo l’ascensore che nel film sferraglia dalla terra all’immaginario, trasformato in metafora del saliscendi che sempre va dal potere al popolo oppresso e viceversa. Grattacieli capovolti, cornicioni da vertigine, palazzi firmati e non, pavimenti e piattaforme in movimento senza soste, si prendono gioco della gravità e l’occhio penetra nella natura con affondi sconosciuti e impossibili prima dei videowall.
Che cosa aggiunga questo immaginario concreto e anche schematico all’aura magica, spesso sfuggente di Macbeth, può aprire molte discussioni.
L’immersione nell’incubo, in teatro è forte; in televisione, anche di più. Con questo Macbeth, quarto progetto di Livermore per le inaugurazioni Scala, dopo Attila, Tosca e la serata virtuale di E tornammo a riveder le stelle, siamo definitivamente con le spalle al muro e dobbiamo solo prendere atto di un mutamento genetico nella realizzazione di uno spettacolo per il teatro musicale, in cui a dettare le regole, o almeno le gerarchie, è un immaginario cinematografico pensato a computer. La regia, ovvero tutto quello lavora su azione, movimento, plausibilità scenica, dinamica dei personaggi e loro trasformazione, insomma ogni svelamento drammaturgico affidato al corpo e al pensiero, scorre su un tapis roulant che i cantanti-attori può anche permettersi di lasciare fermi.
Livermore sa ancora essere regista, ma discontinuo. La recitazione c’è, fuori dai vuoti schemi delle braccia mulinate al vento, ma, persi in stratosferici appartamenti da magnati del petrolio o filibustieri di Wall Strett pronti per una Casa Bianca da incubo (quella sì), proiettati contro fondali di cieli plumbei falciati da fulmini, in teatro restiamo anche noi sospesi a mezz’aria tra sogno e realtà, tra la forza condizionante dell’impianto scenotecnico (tecnico-scenico) e la corporeità del teatro cui i movimenti di Daniel Ezralow, anche nelle semi-coreografie sui ballabili del terzo atto, aggiungono geometriche nevrosi, ma non drammaturgica evidenza e consonanza. In televisione, a tutto pensa il primo piano; il movimento di macchina ravvicina il gesto anche minimo, infinitesimale. Sono due dimensioni divaricate fra loro, quasi non comunicanti, certamente di ceppo lontano.
Questo Macbeth risulta così ancora più bifronte delle opere che l’hanno preceduto, e c’è il sospetto che tratti meglio l’occhio di chi l’ha visto e lo vede su schermo (ancora su Rai5 fino al 29 novembre, garantendo probabilmente un nuovo record di ascolti), rispetto a quello di chi vive l’esperienza distanziata del teatro.
Riccardo Chailly ha lasciato anche in disco un bel Macbeth nel 1986, con i complessi del Comunale di Bologna, Leo Nucci e Shirley Verrett protagonisti (lei, già grande Lady nello storico Macbeth di Abbado alla Scala, 1976). Ed era anche “colonna sonora” di un film di Claude D’Anna, nient’affatto male: un destino scritto nella sensibilità plastica del direttore di ieri e di oggi. In questi anni, alla forza e all’incisività di quella direzione, Chailly ha aggiunto materia verdiana non secondaria per gli equilibri d’insieme – i danzabili dell’atto terzo, l’aria finale che sbalza più nettamente il profilo drammatico di Macbeth -, e materia personale fatta di vissuto, di molti repertori sinfonici, di nuovi accenti e sfumature. L’orchestra di questo Macbeth è ancora più ampia e perentoria, più ricca di colori, più carica di tensione.
Le voci? Ondeggiano tra conferme e qualche delusione. Luca Salsi non comincia impeccabilmente la serata, ma il corpo della voce è imperioso e l’intelligenza del canto sulla parola lo fa emergere alla distanza come il vero protagonista di un’opera in cui Lady Macbeth non gli sta al passo. Il trionfo è per lui. Anna Netrebko non è più limpida e non sale sicura agli acuti che la parte le riserva. I primi due numeri (“Vieni t’affretta” e “Or tutti sorgete, ministri infernali”) escono sfocati e le costano già all’inizio qualche buetto. Si rinsalda nel corso della recita, anche se la sua scena del sonnambulismo, simulata su un cornicione di grattacielo d’antan, non è un capolavoro di finezza. Alle lacune della Lady, negli insieme di fine atto supplisce molto bene lo squillo della sua giovane Dama, Chiara Isotton, frutto dell’Accademia della Scala.
Nessun’ombra invece, com’era da attendersi, sul MacDuff di Francesco Meli, che il pubblico premia, e sulla linea vocale piena e rocciosa di Ildar Abdrazakov. Peccato, appunto, che Banco venga ucciso al second’atto.
Ultimo e per niente ultimo, il Coro. Anche per lui, Macbeth è una fine e un inizio: dopo l’uscita del mago Bruno Casoni (presente agli applausi come maestro delle voci bianche), è il primo sette dicembre nelle mani sicure di Alberto Malazzi, che di Casoni è stato esperto scudiero.
Anche nella decima opera composta da Verdi nel 1847 per Firenze e ripresa con sensibili modifiche nel 1865 per Parigi, il Coro della Scala resta misura di tutta la vocalità in scena, anche dei solisti. Questa inaugurazione 2021 lo conferma al centro di ogni interpretazione che di Verdi si dia, in piena continuità con il passato. Non c’è maestro del coro da rimpiangere: tutti coloro che si sono susseguiti, non hanno fatto altro che confermare, attraverso le generazioni, la qualità e il carattere di questo organico nel far brillare le grandi serate e addolcire la sofferenza delle mediocri. La prova perfetta delle “voci Scala” sotto la guida di Malazzi, nello squillo marziale come nel sillabato a tempo o nel bisbigliato espressivo, rassicura. Quando si tratta di opera italiana e di parola scenica, il Coro della Scala è la chiave della “diversità” di questo teatro da ogni altro.
Teatro alla Scala di Milano Giuseppe Verdi Macbeth. Dirige Riccardo Chailly, regia di Davide Livermore (10, 13, 16, 19, 22, 29 gennaio)
Tutte le foto sono di Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala