La pandemia ci ha insegnato ad andare alla radice delle cose. Invecchiare non è facile e la struttura e l’organizzazione urbana non aiutano. Compito dell’oggi: in attesa della città dei 15 minuti, vedere e denunciare trappole e trabocchetti che impediscono mobilità e socialità. Cominciando dai gradini del tram…
Mi sono divertita (?!) a pensare al progetto della città vicina/raggiungibile/usufruibile dalla prospettiva delle persone di grande età, quindi anche della mia (non mi piace parlare di anziani, non voglio urtare la suscettibilità di qualcuno/a parlando di vecchie e vecchi, ma insomma di questo stiamo parlando).
Che cosa sembrerebbe più consono, più adatto della città vicina/amichevole se visto da questa prospettiva? Tutto nel quartiere: edicole intelligenti, servizi, esercizi commerciali, ospedali di comunità, poliambulatori. Nessun bisogno di spostarsi da un lato all’altro della città. Vasto programma, che probabilmente sarà ‘messo a terra’ quando saremo già sottoterra.
E nel frattempo? Nel frattempo noi abbiamo cominciato a far frullare nella nostra testa i terribili insegnamenti della pandemia. La soglia critica che la pandemia ci ha rivelato in tutta evidenza ci costringe a rinegoziare il rapporto con noi stessi/e e con il mondo. Il lungo isolamento, se ci ha fatto ritrovare anche momenti di attenzione al nostro mondo interiore, se ci ha fatto scoprire una sorta di retrobottega, ci ha anche ricordato che quello che ci ha più colpito è stato il restringimento nei nostri confini corporei, la mancanza di contatto, il non poter abbracciare, toccare i corpi. Questo abbiamo capito: che è la qualità del rapporto con l’altro che nutre la vitalità. Non è arroccandoci su noi stesse, assecondando la sindrome da talpa, accoccolandosi nell’inedia e nell’apatia. Che pure è sempre in agguato, favorita da un senso di spaesamento e di insicurezza, se non a volte di vera paura del buttarsi nel mondo. Ma la paura e il coraggio sono componenti della stessa energia, entrambi necessari per i cambiamento.
E quindi sempre più evidente è diventato l’altro fronte di lavoro: la messa in questione delle politiche sociali e istituzionali attualmente in atto nei confronti della vecchiaia, anche quelle della cosiddetta mobilità. Perché la pandemia ha agito come un rastrello che ha tirato fuori tutti i nodi. E ci ha fatto pensare, alla città, a Milano, come ‘a una città non per vecchi’, parafrasando il film dei fratelli Coen. Non vengono contemplati in una città ‘che corre’. Noi non possiamo correre, ma vogliamo camminare e muoverci per la città, con circospezione naturalmente, ma come facciamo se i tram (soprattutto quei simpatici vecchi tram come l’1 o il 10 o il 19) sono irraggiungibili per la vertiginosa altezza dei loro scalini di entrata, non alla portata di chi ha dolori reumatici o anche in disordine? Ho visto signori e signore attrezzarsi a salire sul tram come se stessero facendo un’arrampicata su roccia. Aggrappandosi ai possibili appigli con disperata determinazione…e anch’io faccio fatica a causa di un’anca malandrina E come se non si sapesse che le scale in discesa sono più pericolose di quelle in salita e ciononostante in moltissime fermate della metropolitana non esistono le scale mobili in discesa? E come evitare di essere investiti dalle temibili biciclette o dagli ancora più temibili monopattini che sfrecciano a velocità pazzesca sui marciapiedi? A volte senza nemmeno scusarsi. O come riuscire a sostare di tanto in tanto su una provvidenziale panchina se la marcia è lunga, perché ne esistono solo nei parchi?
Ci è diventato visibile il fatto che le politiche abbiano teso a interpretare il lungo periodo della vecchiaia con la distinzione tra anziani-risorsa (molto utili al nostro scalcagnato welfare per la cura di bambini e grandi anziani) e anziani-vincolo non autosufficienti per cui disporre ricoveri nelle RSA. Emerse tragicamente poi come ghetti di morte. Mai come ora è apparsa la pochezza, cognitiva prima ancora che sociale, della politica nei confronti del lungo periodo di invecchiamento e di vecchiaia. Più aumentano le classi di età, più aumentano le donne, quindi si può parlare di femminilizzazione degli anziani, e quindi parlo soprattutto di donne vecchie. È vero che siamo spesso sole, spesso povere, spesso l’ultima fase di vita è solcata da malattie. Ma siamo tante. E con un’esperienza di vita, fatta anche di riflessione, di consapevolezza di sé, di azione, di lotta, che ci portiamo dietro anche nella vecchiaia. Se così è, la nostra voce deve diventare forte e chiara proprio per orientare le politiche generali, affinché facciano un enorme salto cognitivo sula vecchiaia. E chi dovrebbe farlo se non noi? E quando dovemmo farlo se non ora?
E come dovremmo farlo se non portando all’attenzione pubblica i bisogni reali, di noi e degli altri/altre simili a noi, spingendo a esercitare l’attenzione sulla vita quotidiana, sulle trappole che la città nasconde? E sulle assenze che vengono spinte sotto il tappeto? Assenza di cura, per i più fragili. Da un lato, dentro le pareti di casa, attraverso la presenza di una rete efficiente e capillare di sostegno, dall’altro intervenendo sull’allargamento degli spazi della vita quotidiana, sia migliorando le condizioni della mobilità per evitare trappole e trabocchetti, sia trasformando lo spazio della città in un luogo famigliare, attraverso la creazione di luoghi di intimità, di socialità e servizi, dove ci si possa sentire a proprio agio. La città dei quindici minuti si prospetta nel futuro, nel frattempo cominciamo a fare piccole cose.
Insomma, oltre a una possibile, augurabile felicità privata, anche una possibile, augurabile felicità pubblica. E quando ripeto la parola ‘felicità’, non penso alla felicità di invecchiare. Invecchiare non è facile, né per gli uomini, né per le donne. Penso alla libertà di invecchiare, ciascuno e ciascuna secondo le proprie risorse, modalità, possibilità, ciascuno e ciascuna, ma tutti insieme. Perché se qualcosa ci ha insegnato la pandemia è stata una più grande voglia di verità, di andare alla radice delle cose, di sottrarle al flusso di ipocrisie e di menzogne. Un bisogno di pulizia. Un orrore della retorica. Ancora una maggiore com-passione. Abbiamo imparato a patire con, forse impareremo anche a vivere con, lasciandoci trasformare dall’incontro con la realtà.
Da leggere:
Marina Piazza La vita lunga delle donne, Solferino 2019
Letizia Carrera I nuovi anziani e la città. Esperienze, bisogni, desideri Progedit 2020
(a cura di) Angelo Miotto, Massimo Acanfora Milano siamo noi, Altraeconomia 2021
Da ascoltare: Tutta mia la città
In apertura : Angelo Inganni, il Teatro alla Scala