Eduardo Savarese: nell’opera solo le donne osano la verità.

In Letteratura, Musica

“Donna son io, signore, e in casa mia”. In sette riletture Eduardo Savarese restituisce alle donne dell’opera la loro voce contemporanea. Wojtek pubblica il saggio “È tardi”: Violetta e le altre meritano il riconoscimento del loro (immortale) coraggio.

Si scrive per dar fiato a un’urgenza – spesso molto personale, talora intima, piuttosto che collettiva – o per trasmettere un messaggio, spesso a chi non è o non è stato in grado di comprenderlo. La giustizia bi(blio)grafica e l’esigenza di trovare nella parola una via per pacificarsi col proprio pentagramma umano sono le vene di cui si innerva anche il saggio di Eduardo Savarese pubblicato per Wojtek edizioni con un titolo eloquente: È tardi .
Il corpo che portano in vita, però, è di quelli colpevolmente marginalizzati.
Sarebbe superficiale lasciarsi andare – soprattutto in questa sede – a una tirata con piglio supponente su quanto l’opera lirica sia, oggi, così poco e mal considerata, fatte salve le poche occasioni pubbliche che fanno scomparire la proposta artistica dietro un’occasione mondana demodé quanto surreale. Ma sarebbe sbagliato. Perché esiste un drappello di eroici giovani artisti e appassionati, e perché di questa categoria fa parte anche Savarese, scrittore, uomo di legge e melomane napoletano, che dai palchi del San Carlo alla scena ha specchiato e riconosciuto la propria esistenza e quella di molti – e soprattutto molte.


Per questo, in questo chiaro e attento saggio accompagna il lettore dentro un mondo che ha regole e codici propri ma che, una volta dischiusi i velluti, parla al presente con voci forse inaspettate, non consuete, di certo capaci
di mettere in discussione e di sorprendere. E questo avviene – suggerisce l’autore, lasciandosi guidare a rileggere – o più facilmente a scoprire – la figura più colpevolmente fraintesa dell’opera, quel femminile così spesso riportato come ancillare e sottomesso e che invece proprio sui palchi lirici ha dato, alle donne, lo spazio per giganteggiare nella storia.
Che l’opera – e le sue donne – sappiano raccontare molto di noi, di questo tempo che si racconta così diverso dal tempo di Violetta, Carmen e Norma, ci aveva già provato qualcuno, a suggerirlo, tentando un’esegesi variamente leggera e scanzonata che in Savarese non perde leggerezza ma acquisisce la competenza dell’esperto e la puntualità di un passo disteso e scorrevole ma che non lesina in dettagli.
Se altrove però, Traviata era stata l’emblema di tutte le donne dagli occhi che di sé, con le parole di De Andrè, dicevano “navigammo su fragili vascelli per affrontar del mondo la burrasca, ma avevamo gli occhi troppo belli”, Eduardo Savarese, che pure apre con la stessa figura, individua per le donne che racconta un filo conduttore differente, quello dell’attesa. Tutt’altro che un ritorno a una mistica del femminile paziente, fragile e sofferto. Al contrario:


“Questo tempo di attesa, nutrito contro ogni ragionevole calcolo della storia, del mondo e della società, contro il rigore ottuso del potere, persino contro chi pretende di volerci bene, è la potente virtù che le donne del melodramma hanno imparato a difendere e a praticare”

È la creazione e la difesa di un proprio spazio, di un’individuazione di sé che esige di agire secondo la propria urgenza e il proprio bisogno. Di liberarsi dalle costrizioni mettendo in gioco anche la posta più alta,
l’unica che alle donne, allora e da sempre, è dato di mettere sul tavolo. Se stesse.
Violetta Valery (o Margerita Gautier se preferite seguire la dizione di Dumas ne La signora delle Camelie, o ancora Alphonsine Rose Plessis, più conosciuta come Marie Duplessis se la vostra intenzione di giustizia
biografica si spinge a restituire il nome anagrafico a una giovane parigina di cui proprio Dumas è stato innamorato), Cio Cio San (nota come Madama Butterfly), Carmen, Norma, Elettra, Lucia di Lammermoor e la contessa Rosina e la giovane Susanna sposa di Figaro, hanno parabole e destini quanto mai diversi, ma ciascuna a suo modo, in scena, riescono dove non arrivano tutti gli uomini che stanno loro intorno: nella rivendicazione della propria verità.


“Anelano a rivendicare il più fondamentale dei diritti: quello ad amare se stesse in una verità di esperienza irripetibile, che finisce con l’adesione alle sorgenti più profonde, silenziose e trasparenti dell’essere di ciascuno”.


Sette storie d’amore passano attraverso un amore inteso come rivendicazione che al contrario il maschile trasforma in possesso (e Josè uccide Carmen), ripicca (Alfredo che getta il proprio denaro in faccia
a Violetta che, morente, rinuncia al suo amore per salvaguardarne il buon nome) o aperta inettitudine. A cui fanno da contraltare sette figure trasformate in archetipi, di nuovi miti da cui talora prendono spunto ma che l’arricchimento della partitura scenica e musicale amplifica esponenzialmente.
Così tutti, come l’autore, possiamo riconoscere, comprendere e perdonare, parti di noi stessi e scelte di vita tra l’integralismo di Elettra, e la devozione di Cio Cio San, la libertà insopprimibile di Carmen. Donne capaci di
quella intelligenza del cuore, del sentire, che le emancipa dalla rumorosa solitudine da cui il tempo, il genere, il destino, le condanna a essere circondate. Figure su cui Savarese apre letture personali, spesso non banali, talora illuminanti, sempre portatrici di grande empatia, capaci di gettare una luce che forse non avevamo preso in considerazione o avevamo dimenticato. Avevate mai pensato, ad esempio, alla solidarietà femminile di Norma, sacerdotessa innamorata del console romano, e allo straordinario rapporto di complicità e sorellanza che intesse con Adalgisa, la novizia che si lega allo stesso uomo salvo poi rifiutarne l’evidente incostanza?
Ciascuna è emblema di una forza eroica e traboccante di pathos che quasi
inevitabilmente richiama alla mente colei che somiglia così tanto a ciascuna di loro da poter essere aggiunta alla lista, quella Maria Callas “con le ossa spolpate dall’anima e dal talento” (l’evocativa definizione è della Traviata di Lella Costa) che Savarese non manca mai di menzionare nei suggerimenti di ascolto che a cadenza regolare inserisce nelle sue approfondite pagine. Un saggio di valore, che, liberando il melodramma da molti luoghi comuni, dimostra che – se è tardi per evitare la sorte tragica alle protagoniste
delle opere che vanno in scena tra palco e orchestra (il verso torna due volte, in apertura e in chiusura, con significati differenti, che assommano e sintetizzano tutte le pagine che le intercalano) non lo è per restituire
all’arte, in tutte le proprie forme, la capacità di raccontare l’umano, superando i lacci del tempo storico e dell’indisponibilità alla scoperta.

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