Non è solo opera alla Scala. Nello spazio di pochi giorni al Piermarini oltre al melodramma di Vincenzo Bellini diretto da Speranza Scappucci potremo ascoltare Riccardo Chailly che alla guida della Filarmonica rifinisce con profondità e leggerezza le sinfonie numero uno di Beethoven e Mahler
In questo popoloso deserto chiamato Milano, in cui contagi veri e temuti tirano le righe su spettacoli e cancellano “ore felici”, succede che la Scala si riempia in due sere di seguito come prima della crisi. Sala non al cento per cento, ma al novanta sì, per il primo dei tre concerti sinfonici d’avvìo del 2022, con Riccardo Chailly, e per un Bellini che non si vedeva dal 1989: quello de I Capuleti e i Montecchi (Muti sul podio). C’è anche la promessa di confermare le stesse “piante” per le due repliche del concerto, il 19 e il 20, e le altre quattro dell’opera (21, 23, 30 gennaio e 2 febbraio).
Torniamo a chiederci perché questo teatro, in tutte le sue stagioni e combinazioni, riesca sempre ad essere un buon motivo per uscire di casa o sfidare la sorte. Conosciamo la risposta: fiducia nel marchio. Per chi ama la musica, è come Adelphi per chi è malato di lettura. Qualcosa che vale si trova sempre. E questo è il doppio caso.
Il concerto è il gioiello della coppia di avvenimenti. Eseguire una dopo l’altra le Sinfonie numero uno di Beethoven e di Mahler combina un nonsoché di musicologico al concreto favore rivolto al pubblico. Nessun ascoltatore anche di primo accesso ha motivo di temere nessuna delle due, ma è vero che le rispettive prime di nove, come Franco Pulcini gioca a descriverle nel programma di sala, sono porte aperte su due mondi lontani: l’una sulla cattedrale più celebrata della Sinfonia, l’altra sulla decostruzione di quella cattedrale. Dal 1801 al 1824, dalla prima alla nona Sinfonia, Beethoven innalza un edificio che culmina in una via di fuga; con le sue nove compiute (più una decima organicamente ricostruita), tra il 1895 e il 1911, Mahler cambia la storia di una forma che della Sinfonia mantiene infine solo il nome, piena come sarà di accumuli, materiali nuovi, forze centrifughe e teatro sommerso.
Chailly applica letture diverse a questi mondi apparentemente vicini e invece lontanissimi. Nell’esecuzione che la Filarmonica rifinisce in questi giorni sotto la sua guida, la Sinfonia in do maggiore op.21 si manifesta come un esercizio di profondità e di leggerezza in cui vengono esaltate le citazioni del tempo da cui Beethoven sta per staccarsi, ma che ancora rispetta. Il primo Beethoven sinfonico si percepisce per quel che è: un nuovo pensiero che ancora profuma di Mozart e di Haydn. I tempi incalzanti e i fraseggi netti sono la decantazione ormai storicamente maturata della rivoluzione di Harnoncourt, cui anche Abbado guardò con attenzione. Il pubblico è chiamato a un gioco di distinzioni e di riconoscimenti che alla fine lo conquista e lo prepara a un nuovo esercizio di stile.
Il “Titano”, Sinfonia in re maggiore che Mahler consegna all’ultimo decennio dell’Ottocento, in questo passaggio alla Scala è il punto d’arrivo di un lungo lavoro di ricerca al di fuori dei luoghi comuni mahleriani accumulatisi nel tempo. Chailly dilata gli estremi, amplia i confini delle dinamiche, ascolta il respiro delle voci interne senza fretta prima di scatenare la forza dei ripieni. Ha davvero un senso aurorale l’inizio della Sinfonia in cui gli strumenti cercano la propria visibilità con piccoli lanci quasi indecifrabili. E un capolavoro nel capolavoro è la sinuosa atmosfera del terzo movimento in cui i colori klezmer non si sono mai sentiti così evidenti nel loro penetrare da conquistatori un tessuto strumentale colto come elementi “altri”.
Nel percorso della Filarmonica, che lunedì 24 formalizzerà ancora con Chailly il suo quarantesimo anno di vita, questo concerto è un passaggio da segnare sul calendario.
L’opera è un prodotto assai meno memorabile, con qualche carattere da segnalare. Ma festa doveva essere, e festa è stata fino alla fine, per tutti. I Capuleti e i Montecchi che il regista Adrian Noble al debutto in Scala ritaglia nella modernità, con ambienti neutri e abiti dei nostri giorni, è un Bellini che più “al femminile” non potrebbe essere. Per due motivi. Uno linguistico e storico: in quel titolo del 1830, santificazione del belcanto italiano, Romeo è un mezzosoprano. L’altro dipende dalla malattia dei nostri giorni; per sostituire in extremis Evelino Pidò, sul podio è salita di corsa, con slancio e coraggio, Speranza Scappucci. Così, in scena l’amore più celebrato nel tempo duetta nel corpo e nelle voci di due donne. E tutti, in buca e in palcoscenico, rispondono al governo di una musicista che porta nuova sensibilità al ruolo che per secoli il maschio ha tenuto per sé.
Un ramo spezzato, dicono gli antropologi, nelle mani di una scimmia è un ramo spezzato. Nelle mani di un uomo è il bastone del generale o la bacchetta del direttore. Forse questa vicinanza ha conservato nel tempo certe esclusive, in cui una breccia si sta aprendo.
Speranza Scappucci è giovane ma di esperienza; è italiana ma cittadina del mondo; diplomata a Santa Cecilia e specializzata alla Juilliard; è pianista ma ha coltivato negli anni – molti a Vienna – la pratica di preparatrice dei cantanti all’opera (quella che a tanti direttori fa difetto). Dal 2017 guida l’Opera di Liegi. Nel suo piglio si sente la consonanza con il repertorio italiano, l’attenzione alla parola cantata, il senso fisico e nervoso del tempo, l’autorevolezza. Qualche eccesso di slancio e di volume andrà a posto nelle repliche.
Non ha avuto molto tempo per “lavorare” l’opera, Speranza Scappucci: una decina di giorni di prove. Ha ereditato uno spettacolo già fatto, dall’inglese Adrian Noble, del quale ricordiamo spettacoli più notevoli (un bel Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi, per esempio). Ma ha ereditato anche un lavoro di concertazione che Pidò aveva portato abbastanza avanti. In tutto parliamo di circa trenta giorni, quasi quanto quelli che Bellini impiegò per scrivere l’opera, nel gennaio del 1830, su commissione fortunosa della Fenice di Venezia. Ma non è l’incompiutezza il problema di questo allestimento, nel quale si confidava nel pragmatismo tutto anglosassone per avvicinare il primo Ottocento al nostro tempo. Noble lo fa senza avventure né lacerazioni, ma con un’inerzia registica a tratti vuota e snervante. Le scene di Tobias Hoheisel e i costumi di Petra Reinhardt, serviti dalle luci di Jean Kalman e dello scaligero Marco Filibeck, accompagnano senza fisionomia un’operazione quasi dettata dalle cose, per un soggetto che nell’attualizzazione degli scontri tra famiglie e gang ha trovato, fino a Bernstein e oltre, la sua sistemazione naturale. Ma è un’operazione schematica, solo in parte figlia di un’opera che non è una trasposizione di Shakespeare, bensì di un soggetto più antico e italiano, contenuto nelle Storie di Verona: Giulietta è più vittima dei doveri di famiglia, Romeo più “capo” e ambasciatore dei Guelfi Montecchi, la trama più semplice e meccanica. Nello spettacolo ci sarebbe anche un’inserzione coreografica, di Joanne Pearce, da dimenticare.
L’orchestra di Bellini non è, come insinuava Wagner, “una mostruosa chitarra” che accompagna il canto. Né la tinta è sempre e solo quella melodica e tenera in cui “il gentile siciliano” (sempre Wagner) è spesso rimpicciolito. Nei Capuleti risuona la forza bellicosa della guerra nei passi veloci e nella dimensione chiave del Coro, che apre e chiude gli atti, e imprime alle vicende “private” una stretta vitale (in questo ancora una volta c’è da portare il Coro diretto da Alberto Malazzi in cima alla graduatoria dei valori).
Ma è certo che Capuleti e Montecchi catturano il pubblico grazie alla vena sempre estenuata dell’amore estremo che porta Giulietta (Lisette Oropesa, sempre deliziosa e sicura) e Romeo (Marianne Crebassa, molto amata e sostenuta dal pubblico) a unirsi e confrontarsi in una galleria di duetti ai limiti dei registri, ritagliando un’opera nell’opera. Risulta così ancor più a misura di donna la qualità del canto, perché il reparto maschile, a parte la linea sempre precisa ed espressiva di Michele Pertusi (Lorenzo), non è un gran sentire: il Tebaldo del tenore cinese Jinxu Xiahou ha squillo ma non tutte le note a posto; il Capellio del basso coreano Jongmin Park è solo cupo e tenebroso, dalla parola oscura.
Infine torna la considerazione che ha aperto le riflessioni sul nostro tempo malato: festa doveva essere per il pubblico (anche giovane) che ha voluto esserci, e festa è stata, senza ombre anche per chi forse le meritava.
Foto di copertina: Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala