“Evolution – Quel giorno tu sarai” dell’ungherese Kornél Mundruczo racconta e ragiona su Olocausto, ebraismo e relazioni madre-figli. Da Budapest a Berlino la storia di Eva, che nasce in un lager nazista e mai si libererà di quella tragedia iniziale, di Lena, dilaniata tra passato e futuro, madre e marito, e del giovane Jonas, che subisce l’antisemitismo senza sentire alcuna appartenenza
I primi quindici minuti, senza dialogo ma con un impatto d’immagini dirompente, sono i più belli e inventivi di Evolution (titolo assai più appropriato dell’italiano Quel giorno tu sarai) del regista ungherese 46enne Kornél Mundruczo, di cui si è apprezzato lo scorso anno Piece of a Woman, la cui protagonista Vanessa Kirby vinse a Venezia la Coppa Volpi e fu candidata a Golden Globe e Oscar. Nel terribile prologo di questa sua nuova opera, che si sviluppa lungo gli ultimi 80 anni della storia europea, tre soldati dell’armata rossa entrano da liberatori, a fine gennaio del 1945, nel campo di concentramento nazista di Auschwitz, e per prima cosa, di fronte all’orrore dell’Olocausto, si impegnano in una frenetica pulizia di pavimenti e pareti di una camera a gas. Come se quel gesto istintivo e incontrollabile potesse cancellare il passato di morte e torture di quel posto (un milione e 200 mila persone uccise e cremate, in massima parte ebrei ma non solo), riabilitando il genere umano infangato in modo definitivo dalla “soluzione finale” hitleriana. La stessa acqua, accade in un altro momento del film, viene trasformata in una sorta di “diluvio biblico”, capace di cancellare le tracce della storia: libri, foto, documenti di famiglia.
Evolution, in concorso al Festival di Cannes 2021, segue tre donne e un ragazzo che nel racconto disegnano, tutti legati in successione da un rapporto madre-figlia o figlio, non solo e non tanto lo sviluppo di una famiglia che parte da Budapest e finisce per dividersi tra la capitale magiara e Berlino, dove vive ai giorni nostri l’adolescente Jonas, ultimo esponente della famiglia, ma soprattutto l’evoluzione dell’idea e del sentimento di essere e sentirsi ebrei dagli anni Quaranta dominati dal nazismo a questi nostri tempi ancora tormentati incredibilmente dall’antisemitismo nei suoi diversi sviluppi. Perché i meccanismi di difesa disperata dalla propria esperienza, nel passato tragico come negli anni successivi e nel presente, passano per la negazione, la collera, il senso di colpa e la vergogna, e i protagonisti di Mandruczo ne sono la complessa rappresentazione.
La matriarca della famiglia non si vede nel film, ma è molto nominata ed elogiata soprattutto dalla figlia Eva, neonata che i tre soldati salvano nel prologo estraendola letteralmente da un tombino di una delle stanze della morte. Il suo nome sta già per inizio, forse rinascita del genere umano, sperabilmente in altri luoghi e tempi migliori. Lei dunque si salva, come la madre combattente indomita, ma resterà sempre appesa ai ricordi di quel posto, dall’incontro con il Dottor Mengele ai tanti altri tormenti subiti in nome dell’antisemitismo, ma anche alle sventure dal marito, che ha pagato la sua opposizione alla presenza sovietica nell’Ungheria del dopoguerra con l’esilio, dopo un’accusa di essere una spia sionista.
In realtà la incontriamo in età avanzata, orgogliosamente in lotta con la fragilità della sua mente, e capiamo come si sia sempre dovuta misurare con il peso di un’identità ebraica che perfino istituzioni ufficiali hanno cercato di negare alla sua famiglia. Eva (l’eccellente Lili Monori) ha dato vita a Lena (Annamaria Lang) – il loro incontro occupa la parte centrale del film – dentro un matrimonio che sarà tormentato e troncato dalla fuga del suo compagno. Cosa che accadrà anche alla figlia, il personaggio più tormentato e problematico del film, la cui vita si colloca faticosamente a metà strada tra l’Olocausto come esperienza vissuta (tramite madre e nonna) o come distante fenomeno storico. Così lo vivrà lei (“voglio lasciarmi alle spalle questi problemi, non voglio essere per sempre una sopravvissuta, voglio essere viva”), e soprattutto Jonas, figlio suo e nipote di Eva, che rifiuta la sua ebraicità nonostante debba patire a scuola un episodio di antisemitismo ai suo danni. Per il ragazzo è questa un’eredità difficile da portare, per i pochi anni e l’enorme distanza da un dramma che non ha davvero conosciuto.
Ispirato all’autobiografia di Imre Kertész (Essere senza destino), a cui si rifà soprattutto l’episodio di apertura, più direttamente basato su una pièce di Kata Wéber, Evolution è un film in cui la poesia si dimostra un’ottimo strumento per tradurre in immagini l’aspetto metafisico della disumanizzazione, spesso tragicamente opaco. Lasciando il mondo esterno, il contesto generale quasi sullo sfondo, il racconto punta più sulla relazione che i personaggi intrattengono con la loro vita, la storia, soprattutto il loro io profondo, la “voce di dentro”. Mundruczó indaga su quello che c’è di più personale in un trauma, di più soggettivo, e prova prima di tutto a dar forma ai ricordi di Eva, che ha perso la testa e la salute nella difficoltà di riconoscere la propria identità (ungherese, ebraica?), e non sa che lingua parlare e come parlare alla figlia. Ricorre così ai suoi virtuosistici piani-sequenza per farne non tanto un esercizio stilistico ma un forte suggerimento, anche culturale e politico, quello di continuare a tenere gli occhi ben aperti, di rifiutarsi di chiuderli. Perché il continuo, necessario lavoro della memoria, di cui oggi si celebra la giornata, non è solo un modo per rapportarsi alla Storia, ma anche lo sforzo per capire quanto c’è nel mondo contemporaneo – a volte purtroppo, verrebbe da dire – di quel che è accaduto tanto tempo fa.
Evolution – Quel giorno tu sarai, di Kornél Mundruczò, con Lili Monori, Annamària Lang, Goya Rego, Padmé Handemir, Julia Bowe