Il concerto? Una visione del mondo. L’occhio di Ghisi su Rondò ‘22

In Musica

Il giovane compositore, chiamato da Sandro Gorli a ideare una parte della programmazione del festival di contemporanea di Divertimento Ensemble, condivide con noi alcune riflessioni su come sta cambiando il panorama della musica. Installazioni semimuseali, partitura e linguaggi extramusicali, elettronica, esibizioni su YouTube o su SoundCloud. E un auspicio: in sala niente applausi

Come è giusto che sia, Daniele Ghisi sta vivendo “con una certa incoscienza” la sua prima esperienza di direzione artistica. Classe 1984, ha studiato composizione a Bergamo con Stefano Gervasoni e matematica alla Bicocca. “Ho chiuso gli occhi e mi sono chiesto: cos’è che vorrei sentire oggi? Che cosa mi aspetto da un concerto?”. Sandro Gorli, l’anima di Divertimento Ensemble, ha coinvolto il giovane compositore perché ideasse una parte della programmazione di Rondò di quest’anno: tre concerti, il primo dei quali è stato molto apprezzato la scorsa settimana in sala Donatoni alla Fabbrica del Vapore. Il programma era una sorta di percorso costruito attraverso i brani di due compositori canadesi, Claude Vivier (1948-1983) e la quasi ottantenne Hildegard Westerkamp. I prossimi appuntamenti saranno il 21 giugno, data non casuale per eseguire Solstices di Georg Friedrich Haas, e il 14 dicembre per un monografico su Paolo Aralla.

Sandro Gorli e Daniele Ghisi

Appena ho presentato il progetto, Sandro (Gorli ndr) mi ha fatto notare che il più giovane dei compositori eseguiti in questi tre concerti ha sessant’anni. Capisco benissimo il suo punto, dal momento che Divertimento Ensemble ha sempre avuto una particolare attenzione per i giovani. Ma volevo cominciare in questo modo, in futuro vedremo.

Colpisce il fatto che il primo concerto sia stato eseguito senza soluzione di continuità: un’esperienza musicale più che una successione di ascolti.
Sarà così anche per i prossimi: sono convinto che un concerto debba restituire un modo di vedere il mondo. È per questo che preferisco programmare serate monografiche o con pezzi lunghi, che non è affatto scontato trovare tra le nuove composizioni, che hanno una durata media di solito molto breve.

Pensi che stia cambiando l’idea stessa di concerto classico?
Siamo in molti a pensare che sia ormai vetusto il concerto antologico continuamente interrotto dagli applausi, che a volte andrebbero proprio aboliti: ad esempio alla fine di un’esecuzione dei Kafka-Fragmente di Kurtág vorrei solo il silenzio. Poi posso capire l’esigenza degli applausi dal punto di vista sociale, ma non dal punto di vista dell’esperienza.  

Quali alternative si possono trovare?
Esistono tentativi che vanno in diverse direzioni. Oggi vanno molto di moda le forme semimuseali delle installazioni, che guardano alle arti visive o alle arti plastiche, in cui siamo noi a decidere quanto tempo dedicare a un’esperienza sonora. O ancora forme di concerto privato su YouTube o su SoundCloud in cui viene annullato il ruolo del live. Ci sono filosofi che pensano che la musica andrà in questa direzione.

E per quanto riguarda la multimedialità? 
Mi pare evidente che sia in corso un cambiamento della figura del compositore. Sempre di più le nuove generazioni vogliono buttarsi su altri mondi, ad esempio la videoarte, le luci, gli strumenti aumentati. Penso ad alcuni esempi del mondo tedesco, come Alexander Schubert: la musica intesa come spettacolo musicale.

Che oggi va molto di moda.
E come per tutte le mode ci sono aspetti interessanti e altri che vanno presi con le pinze. In alcuni casi si ha l’impressione che l’uso dei video sia un po’ forzato.

Ma come si gestisce l’introduzione di linguaggi extramusicali dal punto di vista del segno, della notazione?
È un problema che i compositori si pongono almeno dagli anni Cinquanta, con l’introduzione dell’elettronica: come si scrivono i suoni? La via dell’assenza di partitura è diventata in alcuni casi addirittura ordinaria. Del resto nel pop e nel rock moltissime cose vengono scritte solo in un secondo momento, quando devono essere depositate.

Quindi il concetto stesso di partitura non è più così attuale?
Nel mio caso lo è eccome. Io sogno di poter vedere un giorno una notazione comoda e onnidescrittiva del timbro, da cui però siamo lontani anni luce e che forse non potrà mai esistere per moltissime ragioni. Ma ci sono altri che la pensano molto diversamente, sostenendo che la vera esperienza musicale non abbia bisogno di notazione perché il nostro approccio al mondo è asimbolico: possiamo dire che il fruscio del vento abbia una nota precisa? Forse sono tutte sovrastrutture, eppure per me si tratta di un processo fondamentale non solo quando scrivo per flauto o per violino, ma anche per l’elettronica o le luci.

Paradossalmente pare che quanta più tecnologia si usi, tanto più ci si allontani dalla “riproducibilità tecnica” alla Benjamin.
D’altra parte, se il concerto diventa un evento unico, le persone vorranno partecipare. Vedere certe cose in streaming non sarà mai la stessa cosa.

Molti di questi temi li hai affrontati con altri colleghi compositori del gruppo /nu/thing con cui fondasti un interessantissimo blog (www.nuthing.eu/). Come è andata quell’esperienza?
Abbiamo iniziato casualmente con degli amici: volevamo evitare che le discussioni si esaurissero alle nostre cene, portarle di fronte a un pubblico più esteso. Il passaggio successivo è avvenuto grazie a Milano Musica che ci ha proposto di scrivere insieme. Così abbiamo cominciato a lavorare a delle composizioni collettive, e per me è stato un vero e proprio cambio di paradigma. Conoscevo altri collettivi che lavoravano sul multimedia, dove ognuno aveva la sua specifica competenza, ad esempio l’Edison Studio di Roma. In questo caso però si tratta di un gruppo di compositori che si mettono intorno a una partitura e decidono cosa bisogna scrivere.

Quindi il pezzo alla fine ha un’attribuzione collettiva.
Sì, perché c’è una orizzontalità delle decisioni. Se qualcosa non piace a uno di noi bisogna tenerne conto e proporre delle alternative. Sono confronti che hanno un vero e proprio ruolo pedagogico: siamo diventati maestri di noi stessi e il nostro dialogo diventa più di una semplice somma delle parti. Trovo che questa dimensione collettiva sia molto moderna: le altre arti ci sono arrivate prima. Per quanto mi riguarda, non ho mai amato l’idea del compositore romantico visto come un demiurgo con un’ispirazione che arriva da chissà dove.

A questo proposito, nel blog emerge spesso la differenza tra il compositore romantico e il compositore di ricerca. Che tipo di rapporto ci dovrebbe essere secondo te tra composizione e accademia?
La mia impressione è che ogni paese abbia una sua diversa tendenza. Se parliamo dell’impronta universitaria, è senza dubbio molto anglosassone: me ne sono accorto quando sono stato a Berkeley qualche anno fa. Poi anche lì esiste un sottobosco di altre possibilità: non a caso negli anni Settanta c’era da una parte la musica universitaria di Uptown Manhattan, di tendenza post-seriale, e dall’altra Downtown Manhattan con la corrente Fluxus. Mi sembra che in qualche misura ci sia ancora oggi qualcosa di simile. È un’impostazione che ha dei meriti e dei limiti, anche se sono esperienze in cui si capisce che l’affiliazione a un’università dà a un compositore delle sicurezze che in Italia non possiamo nemmeno immaginare. Noi non abbiamo nemmeno un sistema di dottorati per accedere all’alta formazione musicale: dopo il Conservatorio si viene lasciati a se stessi. D’altra parte, c’è chi continua a insistere che fare musica non è e non deve essere fare ricerca. Se ne è parlato a lungo qualche anno fa, dopo un articolo di John Croft che si intitolava Composition is not research. Secondo me dipende da cosa si intende per ricerca.

Tu come la intendi?
Io sono convinto che la storia della musica non possa prescindere da una storia delle tecnologie musicali. Ad esempio, non ci sarebbe stato Chopin se il pianoforte non avesse avuto quell’estensione, o Varèse se le percussioni non fossero andate in quella direzione, e così via. Non è un caso che mi interessi molto ai sistemi di composizione assistita, o di generazione sonora. Ma l’aspetto che mi interessa di più della ricerca è il fatto che sia aperta agli altri, che non possa prescindere dalla condivisione.

Secondo te i più refrattari alla ricerca sono condizionati dal rifiuto degli intellettualismi alla Boulez?
Forse c’è anche questa componente. Una buona parte dei compositori di oggi si rifiuta di rompersi il cervello su ogni nota che scrive. Ma mi rendo conto che molti considerano la ricerca come una sorta di cavallo di Troia, utile più che altro a ottenere finanziamenti, cosa che porterebbe a una perdita della purezza. Per me la ricerca è qualcosa di più: da cartesiano occidentale quale sono, mi piace trarre il senso delle cose in maniera simbolica. È il mio limite ma allo stesso tempo è il mio mondo.

Foto di Giovanni Daniotti

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