Viaggiatori in terra da ritradurre

In Letteratura

L’intervista esclusiva ai traduttori di “Viaggiatore in terra” di Julien Green appena uscito per Nutrimenti e curioso esperimento di traduzione d’equipe

Appena uscita per Nutrimenti, Viaggiatore in terra è una raccolta di racconti che Borges amava e considerava tra i perni del Novecento: «Penso che nessun’altra epoca possa vantare opere di così ammirabile trama quali Giro di vite, Il processo e Viaggiatore in Terra». Ma gli estimatori di Julien Green erano tanti e tutti piuttosto illustri: lo stesso editore Gallimard, Jean Cocteau, André Gide, Georges Bernanos, François Mauriac, André Malraux. Peccato che da noi in Italia abbia sempre avuto un trattamento di second’ordine. Si pensi che solo due delle cinque novelle qui raccolte erano già edite.

A suscitare interesse, però, non è soltanto il coraggio di riproporre quello che sarebbe dovuto diventare anche da noi un grande classico. La casa editrice ha voluto pure sperimentare. La traduzione dei racconti, infatti, non è stata affidata a un unico operatore, ma a un’équipe composta da due scrittori e due traduttori di professione. Un lavoro di gruppo che ha dovuto coniugare le singole scelte interpretative con una struttura omogenea e coerente.

Certo, non si può negare che un esperimento del genere susciti una notevole curiosità e una miriade di dubbi. È per questo che abbiamo voluto intervistare tre dei quattro traduttori: Filippo Tuena (ft), scrittore vincitore del Premio Grinzane Cavour con Tutti sognatori; Giuseppe Girimonti Greco (ggg), comparatista e studioso di letteratura francese del Novecento, oltre che traduttore; Ezio Sinigaglia (es), studioso di letteratura e scrittore noto per il meta-romanzo Il pantarèi. La quarta, Francesca Scala, è una traduttrice molto prolifica di romanzi e graphic novel, soprattutto dal francese. Insieme a Girimonti Greco ha curato la traduzione di La Principessa di Clèves di Mme de La Fayette per Neri Pozza.

Perché un lavoro d’équipe? Come è nata questa esigenza?

[ft] Tusitala, la collana che dirigo per Nutrimenti – casa editrice per la quale è uscito Viaggiatore in terra – ospita spesso libri a più mani o traduzioni d’autore di testi di narrativa. Considero il testo narrativo come un oggetto vivo, qualcosa che deve suscitare piccoli o grandi cataclismi, e il libro che lo ospita non deve limitarsi a mettere a disposizione un testo a stampa. Mi piacciono gli apparati che accompagnano un testo, le opinioni di esperti, dei traduttori; mi piace che su di uno stesso argomento si diano pareri diversi; mi piace che al testo scritto si alternino foto che aiutano il lettore a entrare nell’atmosfera giusta. Nel caso di Julien Green, l’opportunità che fosse una raccolta di cinque racconti andava sfruttata. L’essere stati in quattro a tradurli, ciascuno secondo la propria esperienza – io per esempio non sono un traduttore – mi è parso stimolante; così come mi sembra interessante l’apparato di note al testo, anche questo diverso per ciascuno dei contributi.

Umanamente poi, amo lavorare in accordo con altri. Mi sembra che il lavoro della scrittura sia un’operazione solitaria e spesso affaticante; poter condividere i dubbi e le soluzioni, discuterne con altri rende questo mestiere molto più piacevole e credo consenta esiti più rilevanti.

Quali sono stati i problemi che ognuno ha incontrato nel proprio lavoro?

[ggg, es] Julien Green non è un autore che ponga al traduttore difficoltà tecniche particolari. La sua prosa piana, sorvegliatissima, non presenta problemi né di comprensione immediata né tanto meno di resa virtuosistica. Tuttavia è un autore insidioso, forse anche per la sua apparente facilità. Tutte le nostre “NdT” mettono in luce alcuni caratteri ricorrenti. La sottotraccia scritturale, delicatissima, la “suspense metafisica”, le preterizioni, i giochi intertestuali, spesso impalpabili, la diglossia, legata a doppio filo all’ambientazione statunitense e al paradossale esotismo che ne deriva, gli effetti cromatici, che collegano di continuo il paesaggio alle fisionomie dei personaggi. E soprattutto la “reticenza”, da cui scaturisce l’insolita importanza di ogni piccola parola “detta” nell’oceano del “non detto”. Il traduttore alle prese con Green deve stare attentissimo a non riempire involontariamente i vuoti: basta un vocabolo dal peso diverso da quello del corrispondente vocabolo francese, o una soluzione sintattica volta a normalizzare, a semplificare o – peggio ancora – a chiarire, per aprire la porta a interpretazioni indesiderate e quasi sempre arbitrarie.

La ricorsività è un altro tipico elemento greeniano. Ricorsività di temi e motivi, che rintoccano implacabilmente in tutta la sua opera, creando segrete corrispondenze e richiami inattesi: la morte “sacrificale”, la sessualità repressa, un segreto inconfessabile, una religiosità soffocante. Ricorsività, martellante, di simboli: il pince-nez del passeggero in Leviatano o L’inutile traversata o il chiaro di luna, ingombrante fin dal titolo, in Maggie Moonshine, e ancora: dimore semivuote, “figure nel tappeto”, arcieri, falciatori – fin troppo allegorici (Le chiavi della morte) –, chiavi, porte chiuse, anelli “infausti” (Christine). Ma anche ricorsività di parole, che mette a dura prova il mestiere del traduttore italiano, addestrato a evitare le ripetizioni. Si dice, non senza qualche fondamento, che la ripetizione risulti più pesante e sgradevole all’orecchio in italiano che in ogni altra lingua. Vero o quasi vero che sia, è questo un principio del quale è opportuno liberarsi quando si traduce Green, perché la ripetizione dello stesso vocabolo a distanza di poche righe, o anche di poche parole, è molto spesso un’eco ricercata (e preziosa), con scopi espressivi magari misteriosi, ma spesso importantissimi nella scarna economia della sua programmatica reticenza.

Un’altra tecnica di cui Julien Green fa un uso molto particolare è quella dello spostamento del punto di vista. La cosa acquista particolare evidenza in Leviatano o L’inutile traversata, dove il protagonista (il passeggero) non è mai osservato dall’interno, né mai il mondo circostante è osservato con gli occhi del passeggero. Questa scelta singolare è di vitale importanza nell’economia del breve racconto, perché il suo scopo è quello di proteggere il segreto inconfessabile che il viaggiatore porta con sé (e che sarà rivelato al capitano, ma non al lettore). Qui il traduttore deve stare bene attento a non sottrarre e a non aggiungere niente, a praticare la virtù della fedeltà, se non assoluta, certo sostanziale.

Sono queste le difficoltà che si incontrano con Green: difficoltà sottili, ma penetranti, che obbligano a una lettura accurata e microscopica, a una comprensione del testo fin nelle sue oscurità più profonde, e non soltanto nella sua tersa superficie. Beninteso, le oscurità permangono oscure, anche dopo l’analisi più attenta: quel che appare chiaro è l’assoluta necessità di non chiarirle.

Avete in mente di ripetere l’esperimento?

[ft] Fosse per me ripeterei l’esperimento a ogni libro. A volte non è possibile, ci sono testi “granitici” che non consento la visione frammentaria, polifonica. In quel caso allora opto per un’unica voce del traduttore, che dev’essere però autoriale tanto quanto l’autore del testo.

Sono molte le ri-traduzioni di classici pubblicate di recente dalle case editrici italiane. Pensate che sia diventato un problema sentito, quello della traduzione? E perché? Che senso ha riproporre nuove traduzioni dei classici?

[es] Questo delle ri-traduzioni dei classici è un tema interessante e piuttosto caldo, oggi, nel mondo editoriale. Per quel che concerne i classici del romanzo moderno, specie del Sette e Ottocento, c’è largo consenso circa l’opportunità di proporre, almeno per i grandi titoli, una nuova traduzione ogni trenta-cinquant’anni. Per i classici contemporanei, cioè per la grande narrativa del Novecento, il dibattito è più articolato, ma recenti eventi editoriali di forte risonanza (le nuove traduzioni dell’Ulisse di Joyce, in particolare, e della Montagna incantata o magica di Thomas Mann) stanno a dimostrare che l’impresa non è mai inutile e contribuisce in misura notevole a una più approfondita conoscenza dei capolavori in questione. Nel caso di Julien Green, tuttavia, il problema quasi non si pone. In primo luogo si tratta di un autore che in Italia è ancora poco conosciuto e solo in parte tradotto, cosicché riesce difficile considerarlo un classico in senso proprio. In secondo luogo, e quasi a dimostrazione di quanto appena detto, ben tre dei cinque racconti che compongono il nostro volume erano inediti in Italia: Le chiavi della morte, Leviatano o L’inutile traversata e Maggie Moonshine. Quindi si tratta in buona parte non di ri-traduzioni ma di prime traduzioni italiane.

 

Immagine: Odilon Redon, The mask of the red death, 1883

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