Per Borges la traduzione non è altro che un processo analogico. E lo sa bene quel medico arabo che una volta, tanto tempo fa, provò a tradurre Aristotele…
Un autore straordinariamente meta-letterario come Jorge Luis Borges non poteva non interessarsi di traduzione. Nei suoi lavori ci parla di opere immaginarie (L’accostamento ad Almotasim), di riscritture impossibili (Pierre Menard, autore del Chisciotte), di manoscritti ritrovati. Com’è noto si è speso di persona in una polemica con León Felipe sulle traduzioni in spagnolo delle opere di Walt Whitman, e ha scritto direttamente di teoria della traduzione nel saggio Le versioni omeriche, su cui si concentra Sergio Waisman, autore del recente Borges e la traduzione. L’irriverenza della periferia.
Come ben osserva Waisman, ne Le versioni il poeta argentino si impegna a scardinare il concetto di «testo definitivo», sostenendo come attraverso diverse traduzioni di un originale sia possibile ricostruire i molteplici punti di vista che autori diversi hanno assunto nei confronti di un medesimo testo, sia esso Le mille e una notte o le opere di Omero. In buona sostanza: non esistono traduzioni errate ma solo traduzioni figlie del proprio contesto storico.
Tuttavia, il testo che forse meglio di tutti può raccontare il rapporto di Borges con il processo di traduzione è quello straordinario racconto – contenuto nell’Aleph – intitolato La ricerca di Averroè, in cui emerge come la traduzione si elevi a metafora del confronto tra culture diverse. Il racconto, secondo lo stesso Borges, parla di una sconfitta: è la storia di una traduzione impossibile.
Lo studioso Avverroè è impegnato nella traduzione di alcune opere aristoteliche. Intorno a lui, la sua casa spaziosa, il giardino, l’amata città di Cordova e, in ultima istanza, la grande terra di Spagna, «nella quale sono poche cose, ma dove ciascuna sembra starvi in modo sostanziale ed eterno». Il lavoro di Averroè viene però turbato da un problema di natura filologica: si trova cioè a che fare con due vocaboli – tragedia e commedia – che nessuno, nel mondo islamico, ha la benché minima idea di che cosa possano significare.
Ora, se la lingua fosse, come la Spagna di Borges, costituita da «cose sostanziali ed eterne», il problema non sussisterebbe; ma le parole sono strumenti duttili e volubili. Non si tratta semplicemente di spostare un termine da un cosmo linguistico a un altro, di indicare cioè qualcosa con un altro nome, operando il più semplice dei processi retorici di spostamento, la sinonimia. La traduzione, piuttosto, è simile all’analogia, che preserva le differenze tra gli universi linguistici e quasi mai finisce per approdare alla metafora o alla sinonimia, il cui scopo è, al contrario, mettere in ombra le differenze e chiamare una cosa col nome di un’altra.
Averroè, dunque, si rompe la testa cercando di interpretare le due parole sconosciute e, da buon aristotelico, cerca la risposta nei libri della sua biblioteca (già ampiamente e lungamente consultati), ignorando gli indizi che il mondo sensibile gli mette davanti agli occhi: come i bambini in cortile che giocano a interpretare il muezzin (teatro!), o il racconto dell’amico Abulcasim, che descrive una strana esperienza in un lontano paese straniero, nella quale il lettore riconosce chiaramente (di nuovo!) una rappresentazione teatrale.
La soluzione è a portata di mano, ma, come osserva Massimo Parodi, docente di Filosofia medievale, si tratta di «un fatto particolare, un avvenimento contingente, mentre il pensatore arabo cerca una definizione, una spiegazione in termini generali e la cerca dunque nei libri, nel sapere codificato», che abbia cioè qualcosa di sostanziale ed eterno come gli oggetti ordinati della sua Spagna. Per questo la sua ricerca è fallimentare, ma il tentativo di cui è protagonista (così simile al tentativo dello stesso Borges, che racconta la storia dal punto di vista di un pensatore di cui sa poco o nulla) esemplifica in modo superbo in cosa consiste l’atto di tradurre.
Per comprendere mondi lontani e universi linguistici diversi è necessario ricorrere alle analogie e, talvolta, delle analogie bisogna accontentarsi, perché suggerendo senza imporre si preservano le differenze, così preziose ai fini di una reale comprensione.
Bando quindi agli atti di fede nei confronti di regole universali. La traduzione – come la lingua – è un processo in continuo divenire e, almeno nel caso di Averroè, ciò che ha più valore è proprio il tentativo, perché «poche cose registrerà la storia più belle e più patetiche di questo consacrarsi di un medico arabo ai pensieri di un uomo dal quale lo separavano quattordici secoli».
“La ricerca di Averroè” in “L’Aleph” di Jorge Luis Borges (Adelphi, 1998, pp. 171, 15 euro)