Mahamat-Saleh Haroun, il più noto regista ciadiano, racconta in “Una madre, una figlia” una storia semplice e drammatica di sopraffazione maschile e solidarietà femminile. Amina sta crescendo da sola la figlia adolescente Maria, e un giorno scopre che è incinta. Il padre non c’è, com’era accaduto a lei tanti anni prima, causando la sua messa al bando dalla famiglia e dalla società. Dovrà far ricorso a tutta la solidarietà di amiche e parenti per evitare che il suo tragico destino si compia di nuovo
Periferia di N’Djamena, capitale del Ciad, uno dei paesi più poveri dell’Africa centrale e del mondo, diviso tra un centro-nord desertico e un sud che grazie al lago omonimo ospita una più fertile savana. Qui, in una sorta di mix di questi elementi climatici, e in uno stato di orgogliosa ma forte indigenza, Amina, protagonista di Una madre, una figlia di Mahamat-Saleh Haroun, alleva la figlia adolescente Maria: lo fa da sola, perché da anni sta pagando uno sfortunato incontro di gioventù (un uomo che l’ha messa incinta per poi abbandonarla) e con quello l’inesorabile disonore sociale che l’ha da subito bollata – espulsa dalla scuola, ripudiata dalla famiglia – spingendola ai margini della società. L’islamismo, che ha conquistato consensi, governa e detta legge con le sue regole ferree: divieto di aborto, infibulazione, potere maschile assoluto. Lei vive intrecciando cestini fatti di filo di ferro estratto da vecchi copertoni: li vende in strada per poco denaro, ma è quanto basta a sopravvivere e a mandare la figlia al liceo, sperando che possa costruirsi una vita opposta alla sua. Invece, come probabilmente accade spesso nella realtà, sta per replicarsi la stessa disgrazia: Maria resta incinta, e il come è forse la scoperta più terribile del film. Una sola soluzione: trovare una donna che rischiando il carcere e la messa all’indice sociale, interrompa la gravidanza.
Ma tale evento, terribile anche nel film di Haroun, che otto anni dopo Grigris e undici dopo Un homme qui crie, Premio della Giuria a Cannes, torna a parlare di chi rimane indietro nella società ciadiana e/o ne è bandito, finisce invece per essere una tappa felice nel racconto perché così si dispiega una solidarietà femminile che attraversa le generazioni – madri e figlie, vicine, amiche – unite da un destino di sottomissione che le rende però reattive, in modi nascosti ma efficaci. E che riesce a volte a rimediare a situazioni spaventose provocate dagli uomini. Personaggi di secondo piano, forse, in questo film (il vicino di casa morboso, onnnipresente, l’inflessibile imam), ma in grado di distruggere vite, sentimenti, precari equilibri, per riaffermare una supremazia violenta, senza freni e di cui neanche percepiscono il carattere prevaricatore e ingiusto. E lo conferma anche il fatto che ad Amina un uomo chiederà una cifra molto alta per eseguire l’aborto, mentre la donna che poi lo farà si offre di aiutare le due protagoniste senza compenso, perché vuole premiare il legame solidale che si è creato tra loro.
Il titolo originale del film,Lingui,spiega lo stesso regista, “è una parola in arabo ciadiano che significa legame o connessione. Più generalmente, è ciò che unisce le persone per permettere loro di vivere insieme. Il termine implica solidarietà, aiutarsi reciprocamente a restare a galla, è la resilienza di una società quando deve affrontare problemi e prove terribili. Io posso esistere solo se anche gli altri esistono, questo è il lingui, il filo comune, il legame sacro del nostro tessuto sociale. Una filosofia altruista, che proviene dalla nostra tradizione. Se questo filo viene spezzato, si annuncia l’inizio di un conflitto. Nel mondo moderno è una nozione che tende a scomparire, perché chi è al potere l’ha distorta. Questa classe di governanti presta poca attenzione al lingui: è spesso mossa da interessi egoistici a breve termine, si appropria in modo indebito di ricchezze per il proprio profitto, sebbene anche chi detiene il comando sia cresciuto con quei valori”. Nel film il lingui si traduce in una solidarietà femminile che trova i percorsi necessari per uscire da una situazione grave. “Se c’è una lezione da imparare è che il lingui funziona solo fra persone che hanno lo stesso codice etico, la medesima visione di solidarietà, prospettive condivise. Senza questi elementi c’è solo ipocrisia”.
Una madre, una figlia, non è certo un documentario, anche se di quel tipo di cinema importa nel suo tessuto narrativo alcuni elementi costitutivi: i temi strettamente legati alla realtà sociale, raccontati con crudo (ma pudico) realismo, uno stile di ripresa che sta addosso ai personaggi, ma più che con l’intento di evidenziare la drammaticità degli eventi, quasi con un sentimento di affetto, solidarietà, condivisione di una sorte infelice; e la recitazione tutto sommato uniforme, al di là di singoli momenti, quasi piatta delle protagoniste, Amina (Achouackh Abakar, che aveva già rivestito un piccolo ruolo in Grigris) e Maria (Rihane Khalil Alio), peraltro molto brave esprime da principio quella sorta di rassegnata fissità che porta chi ne è abituato ad affrontare la sofferenza, i rovesci del sorte, come qualcosa di quasi scontato. Amina e la figlia Maria sono filmate come se fossero sotto assedio, e nelle loro vite ben raramente hanno potuto assaporare momenti lieti. Ma questa volta hanno deciso di reagire.
Haroun però è un autore navigato e sa anche modulare, variare lo stie. Si muove tra detto e non detto, mostrato e no. “Credo che il cinema insegni l’arte della suggestione e dell’evocazione. Le ellissi sono una parte vitale della scrittura cinematografica e bisogna sapere come usarle. Quando si concede fiducia allo spettatore e si rispetta la sua intelligenza, l’ellissi può apparire come un dono, un momento entusiasmante. Quando guardo un film che presenta lacune nella narrazione, è come se qualcuno mi avesse regalato un’epifania. Mi piacciono le pellicole che hanno fiducia nel pubblico e danno allo spettatore la possibilità di costruire la storia insieme al regista”. E’ però chiaro che c’è alla base di rutto questo c’è un intento anche pedagogico: avendo scelto di trattare temi di grande portata come la miseria che non dà alterative di vita, la sopraffazione dell’uomo sulla donna che appare, forte di un’origine sacrale, quasi un elemento naturale, ineludibile, e il controllo sul corpo femminile, strada maestra per esercitare quello sulla società, l’autore è spinto a tratti a privilegiare l’estrema chiarezza, diciamo senza sfumature, della sceneggiatura e della messa in immagini. E nel loro incarnare la fierezza con cui affrontano una vita dura, e la speranza ancora viva di un’emancipazione, le donne del film acquistano a tratti un’esemplarità quasi astratta, una forma assoluta che pagano in termini di comunicativa, coinvolgimento.
Sono comunque difetti decisamente minori a fronte di un respiro sicuramente alto, libero dalle molte strettoie ombelicali che attanagliano troppo cinema d’autore. “Volevo ritrarre la vita di queste donne emarginate ma che non vivono come vittime, non si considerano tali. Sono le eroine non riconosciute della vita d’ogni giorno. Il cinema non chiede più al pubblico di guardare, solo di provare sulla propria pelle sensazioni estreme. Nel mio è importante prendersi il tempo necessario per ascoltare i personaggi, rappresentarli con dignità, catturare la loro umanità, complessità. All’inizio vediamo Amina che costruisce dei forni per cucinare, servendosi di materiali recuperati. Queste scene inquadrano il personaggio in una realtà sociale. Mi piace filmare le persone al lavoro, credo che nel cinema d’oggi il lavoro non sia rappresentato abbastanza. Ci si limita spesso a mostrare qualcuno seduto davanti al computer: ma non c’è realtà in questo, è troppo astratto. Filmare qualcuno al lavoro è bello, gli dà vita”.
Passato ai Festival di Cannes e di Torino 2021, il film aprirà, come evento speciale, il 14 aprile all’Anteo di Milano, il 31 Festival di Cinema Africano, d’Asia e America Latina, che dopo due anni torna di nuovo nelle sale, dal 29 aprile all’8 maggio.
Una madre, una figlia di Mahamat-Saleh Haroun con Achouackh Abakar Souleymane, Rihane Khalil Alio, Youssouf Djaoro, Briya Gomdigue, Hadjé Fatimé Ngoua