La LIX Biennale di Venezia ha appena inaugurato. Cominciamo il nostro racconto dalla Mostra internazionale, Il latte dei sogni, affidata alla curatela di Cecilia Alemani (1977).
Lo ammetto. Io, maschio adulto, bianco, occidentale ed eterosessuale ho incassato mio malgrado il colpo. L’esibizione di femminilità di ogni sorta, canonica o traslata, contorta o sofferta, ribelle o curativa offerta da Il latte dei sogni, il progetto di Cecilia Alemani per la Biennale di Venezia che ha appena aperto i battenti, arriva, piaccia o meno, a segno. E costringe ad accettare una prospettiva diversa, un punto di vista che, dopo centovent’anni di biennali quasi prettamente maschili, porta al centro l’arte al femminile e il suo racconto della realtà, della storia e dell’interiorità umana.
«La mostra Il latte dei sogni prende il titolo da un libro di favole di Leonora Carrington – spiega Cecilia Alemani – in cui l’artista surrealista descrive un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé”.
E proprio da questo spunto nasce l’intenzione evidente di riscrivere una mitologia non più patriarcale ma centrata sull’umano generato dal femminile, senza per questo escludere a priori gli artisti maschi – anche loro presenti se pur in sacrosanta minoranza – ma anzi in un’ottica di fluidità poetica e intima dei generi. Proprio da questa idea, evidentemente, nasce la necessità di scombinare le categorie, di aprire la rappresentazione della realtà a visioni alternative, aperte e immaginifiche, per troppi secoli soggiogate dal dominio maschile, tendenzialmente univoco e normativo.
Proprio da questa matrice di surrealismo magico e femminile viene infine la chiave di lettura anche estetica, oltre che etica, della Mostra Internazionale. Una mostra nella quale, sotto questa luce, troviamo affiancate opere di alto livello a interventi tra il kitsch e il naïf fino all’arte manicomiale, ma in un percorso che viene espresso nella sua unità e complessità dalla narrazione delle storie che sottostanno alle opere stesse. A tratti un piccolo sacrificio in termini di qualità, che però rende la Biennale di Alemani sicuramente originale e molto intensa, un evento che ha fatto e farà, si spera, molto discutere.
Si potrebbe obiettare, e qualcuno lo ha fatto, che molte delle opere esposte sono di matrice più etno-antropologica che artistica, e che queste scelte rischiano di categorizzare in un’ottica quasi colonialista le tipologie di artiste presenti, provenienti da paesi, contesti, epoche e storie le più diverse tra loro. Ma accogliere e includere forme espressive non canoniche, magari ingenue nella formalizzazione, in realtà riafferma l’unicità del singolo e della sua cultura. E respinge a suo modo l’appiattimento venuto dalla globalizzazione becera degli ultimi decenni nel momento in cui la stessa si è infranta contro il muro della pandemia e della chiusura forzata dei confini, delle città e delle porte di casa.
Le intenzioni sono dunque evidentemente opposte e quello di poter ricordare un’Esposizione Universale di primo Novecento è un rischio che appare calcolato. Un rischio che viene quasi del tutto scongiurato dall’interessante espediente delle capsule del tempo, cinque piccole mostre tematiche a carattere storico che forniscono strumenti di approfondimento e introspezione.
Cinque passaggi obbligati dal riuscito effetto di cardine nei punti nodali del percorso, dall’allestimento retrò ed elegante curato dal duo di designer FormaFantasma e dai titoli evocativi come La culla della strega, La seduzione del cyborg o Una foglia di zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola e un contenitore, un titolo quasi alla Lina Wertmuller, che certamente avrebbe apprezzato i presupposti e i risultati di questa Biennale.
Non citerò, se non con le immagini, i lavori in mostra. Lavori a volte disturbanti, a volte commoventi, altre volte assolutamente discutibili se non del tutto fuori luogo. Non li citerò perché la mostra va vista tutta, nella sua interezza, e giudicata come un corpus curatoriale sicuramente ben riuscito, con i limiti e i difetti inevitabili in un’impresa colossale come la costruzione di un evento di tal portata ma, anche e soprattutto, con la necessità storica e sociale che un cambio di prospettiva del genere porta inevitabilmente con sé.
Immagine di copertina: Una pagina da Il latte dei sogni di Leonora Carrington