Zubin Mehta, sul podio, e Peter Stein, alla regia, nell’Aida vista alla Scala rinunciano alle piramidi (e al ballabile) per dare luce all’anima dei protagonisti
Cosa accade ad Aida se la si sottrae al décor e allo spettacolare, alla storia che ne fa, negli allestimenti tradizionali come in quelli più visionari, un kolossal melodrammatico per spazi all’aperto?
Qui alla Scala (dove l’abbiamo vista il 15 febbraio) è tutt’altra faccenda. Non c’è ballo d’étoile che celebri l’amore-morte né mori addomesticati nelle stanze della figlia del faraone, tutt’altro: la danza degli schiavi all’inizio del secondo atto si scioglie in gioco con le ancelle, in turbinio di gonne e gesti irriverenti.
Per Peter Stein e Zubin Mehta l’opera composta da Giuseppe Verdi nel 1871 su richiesta del khedivè d’Egitto Alì Pascià, in occasione dell’apertura del Canale di Suez, dischiude significati più urgenti dell’ambientazione archeologica, più intimi.
È raro nel teatro d’Opera che l’idea registica incontri così felicemente le scelte interpretative del direttore d’orchestra. E forse, in questo caso, le due drammaturgie giungono a una coincidenza di intenzioni per vie differenti. Zubin Mehta dirige senza partitura un’opera che è ormai in lui completamente interiorizzata.
Scegliendo tempi quasi sempre distesi pone in risalto il contrasto tra la dimensione esteriore delle azioni e delle attese, apparentemente statica ma implacabile come il deserto, e quella interiore, dei pensieri, dei monologhi e degli “a parte” del libretto di Ghislanzoni.
La tragedia si svolge automatica e come accidentale mentre la buca conduce con estrema, sempre profonda dolcezza il lacerarsi dell’anima dei protagonisti divisi – come accade in certi libretti verdiani, ancora in odor di romanticismo – tra amor patrio e amor… del totalmente altro da sé, dello straniero: quest’ultimo, irriducibile alle nostre categorie, non lo conosciamo e non possiamo mai del tutto appartenergli e per questo tanto più ci affascina.
La regia di Stein dirige il nostro sguardo su questa impossibilità concentrandosi sulle dinamiche emotive che interessano il triangolo amoroso di Amneris-Radames-Aida. Nei costumi di Nanà Cecchi c’è l’oro regale dei faraoni, il bianco del sacro e del nobile condottiero e tutte le indistinguibili sfumature dal viola all’azzurro della schiava etiope.
Nel quarto atto Anita Rachvelishvili svela il capo alla principessa egizia e le restituisce complessità e umanità ma domina l’intera serata, vocalmente e per spessore interpretativo. Rivale e intrusa è l’Aida di Kristin Lewis, principessa umiliata che dimostra di trovarsi maggiormente a suo agio sulla tessitura leggera come nei momenti di espressione più intima.
Massimiliano Pisapia ha sostituito Fabio Sartori, impedito da una tracheite per la prima. Bella prova dà anche Carlo Colombara nel ruolo del Re.
Le scene di Ferdinand Woegerbauer sono create a partire da elementi architettonici essenziali più volte ricreati e modellati. Il principale è una bianca porta di Menfi, città e tempio, da cui filtra una luce chiara e intensa, verde e insana che a ogni cambio scena si restringe un poco fino a chiudersi sulla tomba di Radames e Aida.
Sepolcro sigillato da inamovibile ed enorme masso dorato, sul quale Amneris consuma il suo estremo sacrificio: versa agli amanti, ai traditori, libagioni di sangue offerte dai suoi polsi.
Foto: © Teatro alla Scala