Leonardo Lidi tesse il Misantropo al Teatro Stabile di Torino, fino al 22 maggio. Christian La Rosa, nei panni di Alceste, spicca per grande naturalezza espressiva
Foto © Luigi De Palma
Uno spazio circolare, di terra, circense, con mucchietti di sassi sparsi come forse nell’Ade, intorno come la parete di un enorme cono, qualcosa di fantastico ma molesto, e una porticina, anzi un pertugio dove entrano i vari personaggi costretti a piegarsi in movimenti non naturali, come accadeva pure nella Signorina Giulia sempre con la regia di Leonardo Lidi che si è formato alla scuola dello Stabile di Torino che ora gli produce lo spettacolo tra gli stucchi del Carignano, dove risuonano applausi.
Dopo aver fatto grandi abbuffate di altri classici, da Ibsen a Garcia Lorca, da Strindberg a D’Annunzio, lo stesso regista-attore (si è visto sovrappeso come da copione e bravissimo, nello sceneggiato tv Noi), prende uno dei capolavori di Moliére, Il misantropo, ex classico degli inchini e dei salamelecchi e, tuffandosi dal trampolino del 400mo anniversario della sua nascita, porta a destinazione, privilegiando l’inconscio, una rilettura che fa tappa storica negli anni 60 e getta l’amo fino alla disperazione tecnologica dell’era smartphone come in un piano sequenza che gira intorno alle nostre infelicità di ogni ordine e grado.
Non solo per il song da juke box e rotonda sul mare Guarda che luna, cult di quel Fred Buscaglione morto il 3 febbraio del 1960 mentre debuttava La dolce vita di Fellini (che sottintendeva nel titolo: dolce… prima della rivoluzione), ma anche per certe atmosfere di quel nostro grande cinema dell’epoca: a me la scena finale, con la dissoluzione dell’amore tra Alceste e Celimene, fa pensare il pianto di Monica Vitti e Ferzetti nella scena finale del capolavoro di Antonioni L’avventura, un film che sembra girato domani, così come la sequenza teatrale è, nella sua precisione, atemporale.
Non si sa perché, ma si piange perché non si riesce a stabilire come voler bene a una persona, per quanto, forse anche perché e non ci sono neppure modi e parole per esprimere questo disagio: Alceste che zoppicando col bastone, cammina intorno alla scena per 75’ cercando se stesso come un filosofo socratico, è l’eroe involontario e la vittima volontaria di questa incapacità di amore. Dietro questo studio della solitudine globale, di cui l’amore è un maxi complemento che ne contiene altri, sta, spesso non detto, nell’allestimento fascinoso di Lidi (lo scenografo Nicolas Bovey è davvero il meglio che ci sia oggi, si ricordi il suo antro cavernoso delle Sedie) il resto.
Il resto è il sociale, in genere è molto esplicito nel teatro di Moliére, la differenza di classe dei tempi di re Sole, i ventagli, i sospiri e i nei di una vita virtuale e superficiale da salotto col bastone che annuncia gli ospiti, così come in questo spettacolo si lancia un appello contro il solipsismo della vita virtuale di oggi, assicurandoci che non bastano what’s up e computer a tenere in vita l’amore, ma neppure la pasta di sono fatti, i sentimenti.
Sarà l’amore a salvarci dalla nostra autodistruzione? si chiede il regista che specifica come una persona al nostro fianco sia diversa da un computer acceso sul nostro letto. Come spesso accade coi registi prodigio (ma Lidi ha una carriera di attore nello straordinario gruppo lanciato da Antonio Latella ed ormai è una sicurezza anche nel pericolo), la nuova lettura rischia per gli spettatori non incalliti di nascondere troppo ciò che la regìa stessa vuole mutare, cioè la natura, la forma e la sostanza di un testo bellissimo e proprio per questo adattabile ai costumi ad ogni epoca, con alcuni agganci cui appendere i rivolgimenti in atto, senza stravolgere del tutto la materia prima di un testo che presenta una società vacua, antipatica, ingiusta, percorsa da marchesi dalla lingua biforcuta, come annota il regista.
Che trasforma in uomini senza volto, mascherati, gli ospiti di questa festa da san Silvestro ’60, ed insieme gli atti del testo magnificamente e baroccamente messo in scena tante volte in passato, perfino in tv quando di teatro d’occupava. Questo misantropo torna ad essere, come probabilmente voleva fin dall’inizio, un grido d’allarme che soprattutto per noi riguarda il presente storico e non remoto, un ballo anni 60, twisteggiante, in cui Alceste resta solo a guardare i suoi simili che cercano disperatamente l’anima gemella, anche sforando le convenzioni eterosessuali. Lo spettacolo va visto dal pertugio nero dell’ingresso in scena, una specie di buco nero dell’inconscio universale in cui tutti rientrano prima o poi, adattando le posture, magari dopo una doccia gelata (citazione anche degli Spettri bagnati visti a Venezia).
E lasciano Alceste, un bravissimo Christian La Rosa, vestito e truccato in bianco e nero, solo a ripensare e a penare per le sue non rimarginabili ferite: l’attore amante di Buster Keaton, ex Pinocchio e tanto altro, ha un disinvoltura con accenni patologici, ma non eccede mai, possiede una grande naturalezza espressiva, come se il peggio che il suo animo esprime e da cui siamo contagiati, sia qualcosa di naturale, strafottente e spontaneo.
Tutta la compagnia (Giuliana Vigogna, Orietta Notari, Francesca Mazza, Marta Malvestiti, Alfonso de Vreese, Riccardo Micheletti e gli allievi della scuola per attori dello Stabile torinese) lo segue in un sintonizzato disegno caratteriale che non eccede mai, ci lascia con la voglia di saperne ancora. Forse gli andava fornito più materiale del testo, anche volendolo mandare al massacro ma rispettandone il senso ultimo, la dissoluzione dei valore e degli affetti, come in realtà fa.
Alceste tenta di amare ma cade nel baratro del proprio IO che non ammette àncore di salvataggio, funi da cui risalire dall’antro dell’inconscio: neppure Celimene può salvarlo, lei non è, come nota Lidi, superficiale e approfittatrice, lo è il suo personaggio ma non la persona. Bisogna scovare e scavare allo stesso tempo nel testo e nello spettacolo che ha momenti di fascinazione visiva assoluti e ricordi con rabbia abbastanza cinematografici pur conservando la sua essenza teatrale.
È capace di prendere al lazo altre epoche e altre delusioni diverse ma non opposte da quelle della Francia del 1666, tutti felici che la convenzione del teatro permetta, con una regìa così appassionata e una compagnia così felicemente fedele, tali salti mortali nel tempo ed è forse in questo salto che si è infortunato il claudicante protagonista, che alcuni si chiedono se sia inciampato rima di entrare in scena.
Il Misantropo di Moliére, regìa di Leonardo Lidi, Teatro Stabile di Torino, dal 3 al 22 maggio, con Christian La Rosa.