Dal testo-esorcismo di Albee, Bruni dirige tre significative prove d’attrici e una commedia dialogica, intensa e sfaccettata
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Che bello ascoltare una commedia in cui tutti i conti tornano, la drammaturgia ha un suo iter che si avvicina alla sensibilità di ciascun spettatore e l’autore ci incanta con un gioco dialogico in cui racconta le tre età di una donna che all’inizio ci sembrano tre donne diverse.
Sono due tempi quelli di Tre donne alte, la bella commedia di Edward Albee finalmente sui nostri palcoscenici, dopo una antica e breve apparizione con la Malfatti; sono due tempi a senso vietato uno con l’altro perché si incomincia col dialogo a tre fra una vecchia ricca, reazionaria, dispotica, la sua quasi badante e parente povera di mezza età e una giovane avvocatessa che non tiene a freno gli artigli.
È un dialogo a punto incrociato di cinismo e arguzia e humour, ma quando si apre il secondo tempo, la stanza che era così in ordine col suo orologio senza lancette (a rimembrar Bergman ma anche Nekrosius), va in pezzi, la vecchia è immobile a letto e le tre donne, vistosamente vestite uguali, ci confessano infine che sono una sola e ci rivelano anche quale età sia la più fertile e propizia. È la vecchiaia, dice la donna alta e 92enne, quando di fanno gli ultimi conti.
Albee è stato un dialoghista eccezionale, il pubblico italiano lo conosce soprattutto per Chi ha paura di Virginia Woolf?, in tante edizioni di cui l’ultima bellissima di Latella, anche se sono apparsi anche Zoo story e Zeffirelli allestì con un cast di star Un equilibrio delicato.
Anche in Tre donne alte, scritta nel ’94, premio Pulitzer, per esorcizzare il fantasma della madre che l’aveva cacciato di casa in quanto gay, Albee taglia i dialoghi con una ferocia gentile, quasi scusandosi tra parentesi, ma così è il genere umano. E come nella sua nota commedia portata al cinema da Liz e Burton in stato di grazia (ma la prima volta nel 64 fu per merito di Ferrati, Salerno, Orsini e Andrei) anche stavolta il figlio è virtuale, non si sa bene se ci sia o no, appare è vero, ma è muto potrebbe essere solo un fantasma.
Lo spettacolo dell’Elfo, in scena fino al 2 giugno, è di quelli riusciti al cento per cento: il regista Ferdinando Bruni, che si prepara al tema della vecchiaia che affronterà nel ‘24 col “Re Lear” e ci ha regalato anche un bellissimo “Edipo re” che vaga tra colpa e destino, frusta la commedia dandole una accensione continua, ci porta a capofitto nell’ingratitudine e senza anestesia, ma con quel tocco di grazia (vedi il lavoro su Wilde che non è passato invano) con cui fa passare anche il più atroce pessimismo, ovvero le verità anche banali della vita cui il virginiano Albee, classe ’28, non fa sconti.
Le scene di Francesco Frongia sono perfette prima nel bon ton arcaico e poi nel disfarsi delle convenzioni ed infine le attrici sono davvero superlative. Incantevole, perfida, scorretta ma con un dubbio negli occhi, Ida Marinelli che gareggia con una strepitosa Elena Ghiaurov, che ha nella secondo tempo la sua meritata parte di gloria e trascina l’applauso, mentre la giovane Denise Brambillasca, che ha avuto esperienze nel musical, regge il confronto molto bene.
Il figlio, meno alto delle mamme, è Ettore Ianniello, non dice una parola ma una bellissima presenza e infatti ottiene plausi e urletti di gradimento. Uno spettacolo che si gode dall’inizio alla fine, in cui la metafora è chiara e semplice ma non superficiale, lontano anni luce dal sentimentalismo piacione con cui si parla dell’età. E senza ricatti, ma portando in dote un bagaglio trasversale di dolore incontinente che si fa sensibilità e anche un desiderio finale di riconciliazione, giacché Albee stesso disse che questa commedia, nata dopo un periodo di crisi, era come un esorcismo nei confronti di una madre impietosa e fu lo stesso autore a curare il primo allestimento a Vienna, mentre poi lo spettacolo ebbe grandissimi star in locandina, da Maggie Smith a Londra, non ancora a Downton Abbey, a Glenda Jackson a Broadway. Si parla di tutto – dice il regista Bruni – di incontinenza e infedeltà, ma non è un ritratto sentimentale della vecchiaia, ci sono arguzie dolorose, un umorismo intelligente che taglia la strada ai nostri destini.
Un testo autobiografico? Albee lo definiva testo-esorcismo nei confronti della madre: fu prima buttato fuori da scuola e poi dalla famiglia, perché omosessuale. Per 20 anni non si rividero, la famiglia resta quindi un disastro e la figura materna restò tutta la vita un conto in sospeso, saldato con questo copione esorcismo, dopo anni di psicanalisi. La bellezza sta nelle riflessioni sulla vita.
Così le donne alte vengono risucchiate gradatamente in una relazione pericolosa, via il realismo, fuori la metafora: Albee è bravissimo coi dialoghi di un bellissimo materiale dai molti registri, parole cattive e urticanti, che analizzano tutti i meccanismi della vita, i pentimenti, rimpianti e perdono. Il figlio muto che appare alla fine è chiaramente l’autore.