I Cimamonte hanno da sempre avuto il potere su Vallorgana. Certo, i tempi sono cambiati: in montagna si arriva in macchina, il feudalesimo è morto e defunto. E anche lui, l’ultimo della stirpe, non ha alcuna velleità cavalleresca: alla villa di famiglia, sepolta tra i boschi, vuole fare ritorno soltanto per studiare in santa pace il suo archivio. E allora perché – nonostante la valle sia in mano a liberi imprenditori e artigiani dell’agricoltura – la comunità si trova presto spaccata? Un romanzo sul potere, sul senso della memoria, sulla scelta dell’andare – sulla forza del restare, decidendo il proprio luogo.
Che sia il mistero il terreno sul quale poggia le sue radici Il duca di Matteo Melchiorre, pubblicato da Einaudi, è fuori di dubbio.
Già l’allure ventilata dalla copertina è intrisa di elementi gotici, e molto dice di quello che sarà lo scheletro della storia: un uomo solo che si incammina di spalle in cima a una scalinata di una qualche antichità, un bosco inquieto, un’ombra aviforme in postura quasi ieratica, un orizzonte inghiottito dal niente e la schiena di una montagna che incombe da qualche parte.
Del resto perturbante, come si addice a tutti i presagi che si rispettino, è anche la scena su cui si apre il libro: che un rapace ghermisca una cornacchia e la trascini per straziarla lontano (davanti a uno sguardo umano impotente) è una rappresentazione che, in innumerevoli varianti iconografiche, agisce sul lettore richiamandolo a un contesto simbolico remoto, le cui coordinate stanno sull’asse della violenza, del potere e del dominio. Temi, tutti questi, che corrono sulla dorsale di tutto il libro.
Quanto al protagonista (ultimo di una schiatta di antico lignaggio), la sua solitudine di orfano e l’eccezionalità della sua abdicazione da qualsiasi forma di mondanità – da cui rifugge per dedicarsi interamente allo studio archivistico – ne fanno un personaggio portato a confrontarsi costantemente con il tema del limite: al pari di certi cavalieri connotati da disposizione alla rinuncia e straordinaria spiritualità, che vengono consumati dal desiderio per il Graal, l’ultimo dei Cimamonte ha per fato una quête tutta volta al mondo dei grandi temi dell’interiorità.
Con queste premesse, è inevitabile che il piglio della narrazione sia da subito denso.
E non è irrilevante che il tempo nel quale la vicenda è ambientato sia quello di un oggi plausibile ma ovattato, comunque distante, quasi astorico, percorso da una tensione di leggenda appena compiuta.
Fragolfo, Valfonda, Vallorgana, Naroen, Bus del Caoron: la toponomastica allestisce un contesto pervaso da un Medioevo tardivo, che promette di dire con puntiglio di ogni luogo, ma in realtà elude, abbozza, rimanda, nasconde.
La montagna che Matteo Melchiorre racconta è una dimensione che non ha un posto preciso, ma che assomiglia sempre. E in questo dato emerge quella che è, fin dagli esordi, la caratteristica che rende la produzione di questo scrittore singolare (per certi versi atipica) nel panorama della letteratura italiana.
Con Il duca Melchiorre fa entrare la storiografia nel romanzo: perché è indubbiamente un romanzo, quello che racconta di come un giovane uomo mite e avulso dalla competizione si ritrovi a confrontarsi con la prevaricazione e a trasformarsi (a dispetto perfino di sé stesso) nell’agone, integralmente maschile, della difesa dei confini.
Tuttavia, al pari delle narrazioni antiche, quello che la storia racconta è anche inchiesta sulla società che produce azioni (e qui è Erodoto a fare capolino). Che poi la storiografia condivida la propria origine con la riflessione sul pensiero, la conseguenza è ben restituita dalle pagine nelle quali si snoda la vicenda, ascrivibile alla tradizione del comte philosophique, che qui appare viva vegeta e per niente appannata, ma oculatamente offuscata sotto la cifra, invitante e ben gestita, del mistero.
Quale è, allora, questo mistero che tanto aleggia e muove?
Ce n’è uno, di superficie, che costringerà a rileggere il senso di tutta la vicenda, che emergerà soltanto alla fine – e su cui, per amore di lettore e salvaguardia della sorpresa, nulla si dirà (se non che sarà, come per tutto il romanzo, non soltanto una svolta di trama: quanto, piuttosto, uno scarto molto più profondo). Ma l’enigma – che la scrittura alimenta con una tensione tenuta magistralmente alta – è il veicolo, lo strumento per arrivare al cuore dell’impianto narrativo.
Il Duca di Matteo Melchiorre è il romanzo del dove.
Su questo, infatti, si interroga (e, di riflesso, interroga) il suo protagonista, in un crescente sforzo di dimensionamento di sé e del tempo: dove finisce il passato e dove comincia il presente?
Il grande enigma è, insomma, un tema fondativo – che, idealmente, raccoglie su di sé quanto questo autore ha costruito lungo tutta la riflessione e la scrittura precedenti.
Una quindicina di anni fa, nel suo esordio (Requiem per un albero, Spartaco), l’interrogazione collettiva intorno alla caduta improvvisa di uno storico olmo nel centro di un paese poneva la domanda del cosa: cosa comporta il rapimento improvviso, quasi fatale, di un pezzo di memoria per le relazioni di una piccola società e per i singoli? Col piglio del logografo (il sottotitolo era “resoconto dal NordEst”) Melchiorre imbastiva in realtà una acuta parabola sulla morte del paesaggio (esteriore e, di conseguenza, interiore). La banda della superstrada Fenadora-Anzù, uscito perLaterza, è stato invece il romanzo del perché: il perché dell’aggressione del paesaggio affrontato, nelle vesti di detective sociale, con una inchiesta di puntiglio tucidideo. Infine, ne La via di Schenèr (Marsilio), lasciati gli archivi e infilati gli scarponi, lo storico compie l’anabasi del come: com’è che una memoria vitale diventa fossile fino alla sua scomparsa (e come può persistere).
A lungo, dunque, Melchiorre ha lavorato per arrivare a questo nuovo romanzo, che intorno al tema del luogo riflette da tre punti di vista, contemporaneamente: all’indietro nel tempo, sulla contemporaneità, e nella possibilità eventuale.
La prima dimensione, naturalmente, è quella della persistenza del passato – un passato che si fa sentire, alberga sulle pietre, si cementa sui termen, i segnacoli atavici dei confini, riemerge da antiche scritture, si fa voce nel vento e materia nelle ombre:
Non riuscivo a liberarmi, in quel continuo riflettere e meditare, dalla convinzione che i miei scomparsi predecessori non fossero affatto scomparsi; pensavo, piuttosto, che essi albergassero non solo nelle stanze che abitavo e negli oggetti che toccavo, ma anche nella mia stessa fisica persona.
La prima declinazione del dove è insomma quello dell’ubi sunt: dove sono? Dove sono andati coloro che ci hanno preceduto, che hanno partecipato del nostro presente permettendo che, un giorno, accadesse?
Il sangue è in fondo una semplice metafora. Si dice sangue per dare un nome alle infinite e imprecisabili cose che scorrono dentro una persona: generazioni di storie, gomitoli di educazioni, alveari di convincimenti, ragnatele di relazioni, sterpaglie di consuetudini, antologie di disgrazie.
E, ancora:
Rimasi genuflesso a guardare quella scritta con l’interiore eccitazione che viene a strabiliarmi ogni qualvolta, per il tramite di una traccia provata, veritiera, scopro di trovarmi nel medesimo e preciso luogo in cui si è trovato qualcun altro secoli prima, come se l’ombra di quel qualcuno fosse un vapore non del tutto esalato e fosse perciò, a suo modo, una presenza tangibile.
Il secondo movimento del dove riguarda invece il presente, e prende le forme di una originale riflessione su quella eterna periferia che è l’insediamento abitativo nell’arco alpino.
La montagna che Matteo Melchiorre racconta non è epica, non guarda ai cieli immortali, ma è il mondo di mezzo, quello del piede sul sentiero, della mano che modifica o soccombe, e spesso violenta o abbruttisce, della luce verticale che presto declina: un contesto duro, per molti versi arcaico, imperfetto:
La mezzaquota disprezzata, i sentieri esumati nelle graniglie del sottobosco, la montagna solida e reale, la montagna dell’uomo, e non quella della natura e dell’assoluto, la montagna alla quale generazioni di uomini, a Vallorgàna come altrove, sono rimaste aggrappate con le unghie per secoli e secoli.
In questo contesto germogliano le discordie, i tranelli, le insidie. Il paesaggio è fatto di relazioni, le relazioni di diffidenza, la diffidenza presta il fianco alla diceria, al pettegolezzo, all’antagonismo.
Già lo aveva più volte ribadito nei suoi scritti precedenti, ma qui ancora e meglio la riflessione dell’autore sul rapporto tra montagna e modernità (o, piuttosto, contemporaneità, con tutte le istanze che questo comporta) assume i contorni di una partita nella quale tradizione e sfondamento paiono ai ferri cortissimi: di tracollo del passato – tema già affiorante ne La via di Schenèr – Melchiorre ragiona con la lucidità di uno storico militante (avere una memoria viva e consapevole, non musealizzata ma operante, pare dire, significa certo avere un passato da gestire, ma per converso anche avere una prospettiva).
Non a caso il personaggio-architrave della vicenda raccontata in questo romanzo è un uomo piantato in mezzo al presente, ma dotato di un sapere che affonda le sue radici in una conoscenza secolare ed esclusiva, logica e tecnica, ma disposta a tesaurizzare anche i segreti non per forza razionali di quanti hanno prima di lui avuto un (intimo, prima ancora che interiore) rapporto con i boschi: sarà lui, Nelso Tabiona, il buon boscaiolo, a porsi come intermediario e traduttore, come bilancia e come contraltare nella disputa tra l’ultimo dei Cimamonte e Mario Fastrèda, l’antagonista che ha conosciuto solo il lavoro e dal lavoro ha tratto il suo potere.
Il bosco è così. Dà l’illusione di essere fermo e invece si muove. Cammina, ma così lentamente e astutamente da lasciarci per lungo tempo inconsapevoli di quel suo immenso e incontrastato avanzare.
E, ancora:
La proprietà di un bosco è in realtà un possesso ben strano. Si posseggono gli alberi, le foglie, il suolo e le rocce qua e là affioranti ma il bosco nel suo complesso no: non si possiede pienamente.
Che sia il bosco a guadagnarsi la scena, passando da generico fondale ambientativo a oggetto del contendere, non è irrilevante: nel suo guardare alla montagna a partire dal bosco Melchiorre fa scattare lo scarto dell’inquadratura che rivela il fatto che oggi più che mai (oltre che parco giochi per prestazioni muscolari) la montagna è, sostanzialmente, periferia; una periferia che, spente le luci dell’epica delle vette (o delle catastrofi periodiche), necessita di essere letta senza semplificazioni, poiché è terra assai faticosa (e l’indifferenza nei confronti della complessità, tra l’altro, finisce spesso per essere legata da un nesso causale alle catastrofi di cui sopra).
«Il fatto è questo», precisai. «Alcune persone, come lei, hanno confidenza con il mondo intero, il che è possibile soltanto per chi viva altrove che in montagna, e dunque per chi soddisfi la propria vita altrove che in montagna. E sono queste persone che hanno confidenza con il mondo intero a convincersi che le montagne, i boschi e i montanari siano specchio di virtù. Il che, se posso, non è vero. E inoltre, in questo genere di convincimenti, vi è pure, a mio giudizio, un soggiacente pensiero discriminatorio. Quale? Questo: che la virtù che si vorrebbe albergasse in montagna trova le proprie ragioni nel presupposto che la montagna sia arretrata e che conservi, perciò, qualcosa di più genuino, di più autentico e, appunto, di virtuoso. Ma queste cosiddette virtù, lo ripeto, presuppongono l’idea discriminatoria di un’arretratezza della montagna. Io non contesto minimamente che la montagna sia arretrata, e capisco bene che un simile pensiero torni comodo, oggigiorno, per coltivare la prospettiva di un futuro rigenerato da virtù compatibili con quelle che si è certi di poter trovare tra i boschi, le montagne e i montanari; ma non giudico poi così rispettoso ed egualitario questo stesso pensiero”.
Infine, c’è la terza locuzione del dove: quella della proiezione, ovvero quella che apre alla possibilità di un oltre. E qui ci vuole qualcosa che scardini davvero il bradisismo sociale della comunità di montagna, mondo nel quale il potere è tutto (ancora) al maschile; perché l’uomo che fa? Lavora. Con cosa ragiona, con cosa misura la sua vita? Con il lavoro. E con la donna è, sempre, giudicante, perché percepisce la capacità che la donna ha di sconvolgere, di portare fuori dal mazzo chi ceda alla malia (da lei implicitamente suggerita) di guardare oltre.
Bisogna aspettare oltre centocinquanta pagine perché – al di là della vecchia serva, più carattere che personaggio – compaia dentro questo romanzo una donna. Inevitabile che, quando questo accade, lo faccia con una forza in grado di sparigliare dalle fondamenta, sfidando il genius loci a mettere in chiaro le sue ombre: l’atto di entrare in una casa abbandonata e di posare uno sguardo presente su ciò che vi è stato abbandonato è profondamente sovversivo, poiché fondato sulla necessità di andare.
La donna è Pandora: apre la scatola, rivela le storture (il patriarcato), pensa diverso, è spesso (anche per questo) costretta alla fuga, ma in questa fuga riafferma la propria capacità di muoversi tra dimensioni comunicanti, non è statica ma fluida (quasi, si direbbe, acquatica). Ed è attraverso di lei che il presente può essere rifondato: con una scelta di contaminazione. Un rischio antico, un rischio umano.