Philippe Le Guay (“Moliére in bicicletta”, “Le donne del 6° piano”) punta più sulla suspense che su Freud raccontando un dramma familiare in “Un’ombra sulla verità”: il protagonista Francois Cluzet, prima tranquillo vicino, si rivela poi un feroce antisemita, un abile manipolatore, capace di far litigare marito (Jérémie Renier) e moglie (Bérenicé Bejo), genitori e figlia (Victoria Eber), sconvolgendo l’intero condominio. Ma la regia preferisce il thriller all’apologo e il finale, più che aperto, resta appeso
Il signor Jacques Fonzic (François Cluzet), protagonista di Un’ombra sulla verità di Philippe Le Guay, ha l’aria tranquilla e rassicurante del vicino ideale. Educato, sorridente, cerca una cantina da acquistare per poter conservare i tanti cari ricordi di una madre morta da poco. Nulla nel suo comportamento può far presagire la più piccola forma di devianza, la minima minaccia alle regole e alle abitudini dell’elegante palazzo borghese dove vive l’architetto Simon Sandberg (Jérémie Renier), insieme alla bella moglie (Bérénice Bejo) e a una figlia (Victoria Eber) in piena ribellione adolescenziale. Così, ancora prima che il contratto venga formalizzato, Simon consegna senza alcuna remora le chiavi della cantina appena venduta al signor Fonzic. Il mattino dopo scopre che l’uomo ha deciso di usare la cantina come abitazione (e il tubo per irrigare il giardino come doccia), in barba a qualunque regolamento di condominio. A nulla valgono minacce e lusinghe: Fonzic è il legittimo proprietario di quella cantina e intende utilizzarla come gli pare. Soprattutto perché non ha un altro posto dove stare.
Mentre lo sconcerto dei vicini lascia rapidamente il posto all’irritazione e alla collera, l’identità dello sconosciuto dall’aria tanto perbene si svela: Il signor Fonzic è un ex insegnante di storia cacciato da scuola per le sue idee negazioniste, un antisemita che lancia proclami violenti su internet, un abile manipolatore capace di instillare il germe del dubbio anche nella giovane mente della figlia di Simon. In estrema sintesi, Fonzic è il perturbante, quell’elemento che Freud descriveva con queste parole: «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». Insomma, qualcosa di familiare che abbiamo rimosso, e quindi ci spaventa, ma soprattutto ci confonde, perché lo percepiamo come estraneo e al tempo stesso fin troppo nostro. E nella bella famiglia di Simon, di origine ebraica, la pura e semplice presenza di Fonzic finisce col minare alle fondamenta sicurezze e convinzioni, rendendo evidenti fragilità e malesseri, dentro la relazione di coppia così come nel rapporto fra genitori e figli.
Philippe Le Guay aveva già fatto un’operazione in qualche modo simile con Le donne del 6° piano, dove aveva raccontato in chiave di commedia l’incontro-scontro fra classi diverse nella Francia del 1960, utilizzando al meglio il magnifico Fabrice Luchini e chiudendo la narrazione dentro un unico palazzo parigino. Anche in questo nuovo film, ambientato ai giorni nostri, il fulcro della narrazione è rappresentato dall’edificio dove vive la famiglia Sandberg e in cui Fonzic penetra con l’inganno, mettendo da subito in crisi l’equilibrio preesistente e finendo col rappresentare l’elemento catalizzatore di tutti i conflitti, fuori e dentro la famiglia. Le Guay ha scelto però questa volta la chiave del giallo, costruendo intorno all’«uomo della cantina» – questo è il titolo originale – un’invischiante atmosfera in bilico tra thriller e horror, soprattutto quando la macchina da presa si muove sinuosa nei lunghi corridoi e negli anfratti sporchi e poco illuminati dello scantinato.
In quello spazio del sottosuolo, da subito raffigurato come oscuro, nemico, potenzialmente distruttivo, anche quando semplicemente si limita a essere, François Cluzet è bravissimo a rendere tutta l’ambiguità del suo personaggio, una questa figura di aggressore che si finge vittima, esibendo arroganza nel medesimo momento in cui mostra tutta la sua fragilità, in un incessante movimento di manipolazione delle coscienze: che si insinua come un veleno subdolo e si rivela ben più inquietante di quanto vorremmo. Le Guay – di cui resta insuperabile il piacevolissimo Molière in bicicletta – forse è più a suo agio con il tono lieve della commedia, e a tratti, soprattutto verso il finale, sembra smarrire un po’ il senso dell’intera operazione, lasciandosi trascinare più dal desiderio di mantenere viva la suspense che dal bisogno di chiudere in modo davvero soddisfacente questa sorta di apologo morale. Il finale sospeso ci appare così più dovuto all’incapacità di scegliere che a una precisa, magari provocatoria, scelta estetica.
Un’ombra sulla verità di Philippe Le Guay, con François Cluzet, Jérémie Renier, Bérénice Bejo, Victoria Eber, Jonathan Zaccaï, Denise Chalem.