Depp versione trafficante d’arte britannico in “Mortdecai”: con tutti i tic, vezzi e ripetizioni di un attore che fa sempre e solo se stesso. Ma circondato da star
Ci sono attori schiavi della parte e parti, loro malgrado, schiave dell’attore. Come capita che un attore finisca per mettere in scena sempre (o quasi) se stesso.
Per alcuni si tratta di un diritto guadagnato sul campo, al culmine di una lunga gavetta di ruoli divenuti icona (si pensi a mostri sacri come Bogart o Eastwood), per altri, come il Woody Allen dei tempi belli, è fin dagli esordi una precisa dichiarazione di intenti, poetica, a metà tra la confessione autobiografica e la seduta psicanalitica.
Per altri ancora, e qui fare nomi sarebbe poco educato (anche se Nicholas Cage…), interpretare se stessi è l’amara o scaltra via di fuga per mascherare l’incapacità di fare altro.
Curiosamente, il Mortdecai da grande schermo, ispirato al ciclo di romanzi dell’anglo-italo-sloveno Kyril Bonfiglioli, si aggancia alla perfezione a tutte e tre queste categorie. Perché se la leggenda vuole che il defunto Bela Lugosi si sia fatto seppellire in completo nero e mantello, come da tradizione vampiresca, è altrettanto probabile che oggi un Edward Mani di Forbice o un Donnie Brasco annoterebbero tra le loro ultime volontà quella di essere tumulati nei panni di Johnny Depp.
Già, perché non importa che vesta abiti e baffi di Mortdecai, eccentrico trafficante d’arte britannico invischiato suo malgrado in casi di spionaggio internazionale, piuttosto che quelli di un pirata, detective, vampiro o Willy Wonka: il trasformista Depp riesce sempre nella mirabile impresa di mostrare comunque la stessa cosa. L’inconfondibile campionario di espressioni dell’attore-feticcio di Tim Burton è ormai un marchio di fabbrica, tra sopracciglia alzate, solchi tra i denti, espressioni di disgusto e fughe rocambolesche davanti al pericolo.
Il film? Ah già, c’è anche quello: buone tinte da cartoon nella prima mezz’ora, raffinate allusioni allo Spielberg d’annata (l’incipit in stile Tempio Maledetto), un Paul Bettany bodyguard-latin lover divertente ma un po’ sprecato, e un inseguimento alla Austin Powers a base di tette e vomito di cui non si sentiva assolutamente il bisogno.
Intendiamoci, c’è di peggio: il franchising Johnny Depp non è uno Starbucks o Mc Donald’s qualsiasi. Per quanto visto e rivisto, il personaggio funziona, strappa la risata e muove simpatie, e Charlie Mortdecai versione moderno ispettore Clouseau è in effetti un efficace successore del Peter Sellers in impermeabile, baffetti e movenze da Wile E. Coyote, più di quanto non lo sia il vero poliziotto del film, uno slavato Ewan Mc Gregor che sembra capitato lì per caso.
Ma è proprio questo il punto. Per quanto Mortdecai disponga di un coro di comprimari di tutto rispetto (i già citati Bettany e Mc Gregor, ma anche Jeff Goldblum e la sempre più bella Gwyneth Paltrow), nessuno di loro si arrischia anche lontanamente a eguagliare o coprire i virtuosismi del solista.
Paura di rubare la scena? Timore di non reggere il confronto? Piuttosto, partita truccata: pare infatti sia stato lo stesso Depp, una volta scoperti i romanzi originali (più dark, più british, più tutto) e la prima bozza di adattamento, a commissionare sceneggiatura e regia all’esordiente Eric Aronson e all’amico David Koepp, conosciuto sul set di Secret Window. Sceneggiatura? Regia? Ah, già, ci sono anche quelle.