“Gli orsi non esistono”, l’ultimo film del grande regista iraniano, ora nelle sale, ha vinto alla recente Mostra di Venezia il Premio Speciale della Giuria. Ma lui non ha potuto ritirarlo: è in carcere nel suo paese per aver difeso due colleghi e perché continua, come in questo complesso racconto, a usare il cinema come arma di protesta contro il regime. Al confine tra Iran e Turchia, si dipana una vicenda a cavallo tra vita vera e narrazione, sui temi dell’esilio, della libertà, della resistenza a un potere ingiusto
Gli orsi non esistono, l’ultimo film di Jafar Panahi, ha ricevuto alla Mostra del Cinema di Venezia il Premio speciale della Giuria, ma il regista iraniano non ha potuto ritirarlo, perché è stato arrestato l’11 luglio scorso. La sua colpa? Aver protestato per l’arresto dei colleghi Mohamad Rasoulof (Il male non esiste) e Mostafa Al-Hamad. E non aver mai smesso di usare il cinema come arma di protesta contro il regime iraniano e le sue leggi liberticide.
Una coppia, una strada, una città turca sullo sfondo, un litigio. C’è di mezzo un passaporto falso, un tentativo di espatrio, la concreta possibilità che attraversare il confine verso una nuova vita implichi la rinuncia a quanto di più prezioso c’era nella vita di prima. Stop. È la sequenza di un film quella che abbiamo appena visto. Lo dirige a distanza Jafar Panahi, proprio lui, condannato a non possedere un passaporto, impossibilitato a uscire dall’Iran, esiliato in un villaggio a due passi dal confine con la Turchia, appeso alla precarietà di un segnale telefonico che va e viene. «Non c’è campo, ma proviamo a salire più in alto, sul tetto, o sulla collina, magari lì il telefono prende»: una piccola frase che viene ripetuta più volte, e diventa una perfetta metafora del tentativo costante di resistere, opporsi ai diktat del potere, rivendicare il bisogno di creatività e libertà.
Panahi nel 2010 è stato condannato da un tribunale iraniano a sei anni di carcere (con la condizionale) e a non girare film per vent’anni. Ma lui ha continuato a disubbidire, e di film non ha mai smesso di realizzarne, all’insegna della precarietà della vita e della resilienza della volontà. Precarietà e resilienza che vengono messe in scena nell’intreccio fra i due piani dell’opera: la realtà e la finzione, il film dentro il film. Da una parte, la realtà del villaggio in cui il regista/protagonista cerca di sopravvivere senza scontrarsi con le tradizioni locali, ma dove finisce col rappresentare una sorta di miccia accesa, una provocazione vivente, fino alla inevitabile tragedia che nonostante gli sforzi nessuno riesce a scongiurare. Dall’altra parte la finzione, che in realtà finzione non è, e proprio per questo pretende verità, esige che il destino di chi soffre per la mancanza di libertà e diritti non venga consolato con un happy end posticcio, la rappresentazione falsa di una via d’uscita “facile” che in effetti non esiste. Perché mai potranno esserci facili happy end finché ci saranno così tante persone costrette a rubare l’identità di un altro per conquistare il diritto a muoversi liberamente nel mondo.
Un film sconsolato, tristissimo, una denuncia accorata della nostra radicale impotenza. Panahi si mette in scena in primo piano, con tutta la sua umana goffaggine, nel suo inesausto tentativo di fare la cosa giusta, sia quando gira un film per procura, dall’altra parte del confine, in Turchia, dando voce agli esuli e alla loro disperazione, sia quando cerca di combattere la superstizione nel villaggio dove si è trovato a vivere. Da una parte come dall’altra del confine sembra però che non ci sia speranza alcuna, perché proprio la macchina da presa, con la sua invadenza, con la sua pretesa di chiudere le vicende e dare un senso alle storie, finisce col provocare la tragedia.
Cineprese e macchine fotografiche in questo film assumono su di sé il ruolo del perturbante. La loro semplice presenza, il solo fatto che un pezzetto della nostra vita venga ritagliato e fissato, dentro una fotografia, nel fotogramma di un film, basta a modificare la realtà, a innescare una nuova catena di eventi che può avere esiti drammatici. Ma non importa, sembra dirci alla fine Panahi, noi non ci arrendiamo. Lui si trova tuttora in carcere e rischia di dover scontare per intero la condanna che gli era stata inflitta nel 2010. Intanto in Iran le piazze sono invase di giovani che chiedono di vivere in un paese migliore. E noi che cosa possiamo fare? il minimo è andare a vederlo al cinema questo film, terso e pugnace, che parla di confini e passaporti, sguardi e tentazioni, fughe e ritorni. E dell’incerto confine tra realtà e finzione, e tra noi e loro.
Gli orsi non esistono di Jafar Panahi, con Jafar Panahi, Mina Kavani, Naser Hashemi, Vahid Mobasheri, Bakhtiyar Panjeei.