Guardando la città: 43 fotografi in mostra per raccontare la propria prospettiva. Il centro, la periferia, l’architettura, le storie, le velocità e le lentezze. Cinque di loro spiegano che taglio hanno dato al proprio lavoro
Ostinata, viva, capricciosa, gabbia di solitudini, città delle occasioni, città di gatti, centro pulsante per l’economia, la moda, la cultura. Grigia, luminosa, ostile, accogliente, prepotente. Milano è tutto questo, o niente di tutto questo, in sei anni non sono ancora sicura di averlo capito.
Dipende un po’ da quanto e come la si vive, da come la si guarda – se la si guarda, nel ritmo sincopato e delirante dei pensieri e degli impegni. Un fotografo, per mestiere, per passione, per entrambi, osserva e seziona la propria città più o meno quotidianamente: alla Galleria Bel Vedere la decima edizione di Prima Visione, collettiva organizzata in collaborazione con i photoeditor del G.R.I.N. (Gruppo Redattori Iconografici Nazionale), unisce 43 sguardi di fotografi diversi, noti e meno noti, puntati sulla Milano del 2014.
Chi ha scelto il centro, chi la periferia, chi spazi il più possibile puliti, chi non ha saputo rinunciare a una presenza umana o l’ha eletta protagonista: l’anima della città è sfaccettata e ognuno coglie un po’ quello che vuole. Così ho chiesto a cinque dei partecipanti come nasce una certa prospettiva su Milano. La si sceglie? La si scopre? La si accetta?
«Lo sguardo di chi fotografa non cambia per una scelta soggettiva», spiega Francesco Radino (1947), che ha iniziato a fare il fotografo a Milano alla fine degli anni ’60. Per Radino ciascuno subisce le influenze di ciò che l’ha preceduto, che ha visto e studiato e che prende posto nella sua coscienza. «Giovanni Pintori diceva sempre: “stai attento a ciò che vedi, perché ti entra dentro”, cose brutte comprese».
Nel suo caso una grossa impronta arriva dalla pittura, in primis quella dei genitori. Inoltre, lo sguardo cambia continuamente e in modo fisiologico, perché «interattivo rispetto alla realtà». Così lo scatto di Radino, parte di un intero libro su Milano edito da Touring Club e in uscita ai primi di maggio, racchiude i due più evidenti cambiamenti della città: quello urbanistico, con il nuovo skyline, e quello etnico.
Un mutamento scioccante, per quanto graduale, perché avvenuto dopo trent’anni di quasi immobilità: «Milano è sempre stata molto conservatrice».
Anche l’impulso che sta dietro alla necessità di fotografare influenza lo sguardo. Giuseppe Biancofiore (1980, Manfredonia) è arrivato a Milano 3 anni fa, passando per Arezzo, Bari e Roma, e ha iniziato a esplorarla con la sua Nikon nel tentativo di conoscerla meglio.
«Superato il trauma climatico, avevo bisogno di capire la città: ho iniziato scattando sotto casa mia, in zona Inganni, poi ho studiato i luoghi dove la gente passa abitualmente senza tuttavia soffermarsi a guardare, come accade agli incroci delle strade». Ne è nata una visione che si propone il più inusuale possibile, a dispetto delle linee dritte e in cerca di un’estetica tutta nuova. «Per comprendere una città ostinata come Milano bisogna dimostrarsi ancora più ostinati».
«Questa città può darti tantissimo, ma toglierti altrettanto», conferma Masiar Pasquali, 31 anni, che ha vissuto a Milano gli ultimi 12 e ha cercato nella fotografia la cura a un malessere personale: «A un certo punto ho iniziato a sentirmi fuori luogo, isolato, mentre l’energia di Milano si affievoliva e la sua anima spariva».
Il suo scatto per Prima Visione rappresenta così la «natural burella» di una discesa verso gli inferi della metropolitana, in una città che secondo lui ha tutt’altro che uno spirito metropolitano.
In effetti «È una città a metà tra il provincialismo e il cosmopolitismo: a renderla internazionale ci sono la moda, il design, gli affari. Se ci si ferma a guardare i milanesi pare invece di vivere in una piccola città», racconta Matteo Cirenei (1965), formatosi in architettura e sulle fotografie di Gabriele Basilico. Ha cominciato a indagare in bianco e nero e pellicola – che utilizza tutt’ora – le architetture di Milano realizzate a partire dal dopoguerra, con un intento meno urbanistico di Basilico.
Poi, con l’avvento dei nuovi edifici, ha spostato la propria attenzione sui particolari, i dettagli, i giochi di luce e i riflessi di queste architetture molto moderne, di cui ha cercato di fare un’estetica: «Il fotografo può rendere bellezza anche agli edifici più brutti». Guardando dal tetto del Duomo in direzione di Porta Nuova lo skyline è cambiato, ma Cirenei ha preferito voltarsi dall’altro lato, dove all’orizzonte spicca soltanto la Torre Velasca.
«Mi ricordo ancora la prima volta che ho messo piede in piazza del Duomo: non potevo credere che fosse tutto vero», ricorda Francesca Romano (1966). Era il 12 aprile del 1989, aveva 24 anni e sognava un futuro nell’editoria che Palermo non era in grado di darle.
Qualche mese dopo si trasferì a Milano per non lasciarla più. Fotograficamente gli stimoli arrivano da luoghi d’affezione, ma soprattutto da storie umane, come nel suo reportage del 2014 Il lavoro rubato, che racconta il tentativo di alcuni operai di difendere il proprio posto di lavoro.
«Ho un’idea molto romantica della fotografia, cerco storie che mi emozionino e a cui poter dare qualcosa». Alcune sono più faticose, altre fortuite, come nel caso dei monaci colti accanto a Santa Maria delle Grazie. «È stata come un’illuminazione che mi ha fatto cadere in una sorta di stato di grazia».
Tutti riconoscono in questa Milano schizofrenica, che sembra una, nessuna e centomila città, la terra delle opportunità. D’altra parte, come mi dice Radino, «è dove ci sono le occasioni che fioriscono i talenti: tutte le storie dei grandi fotografi sono storie di grandi occasioni. È per questo che a Milano ne sono sbocciati tanti».
Foto: MILANO © F. Radino