Gaetano D’Espinosa dirige alla Verdi, con stile opulento e un controllo totale della partitura, l’unica opera teatrale di Bela Bartòk
In uno dei concerti più belli visti a Milano da anni, Gaetano d’Espinosa, con l’orchestra Verdi, salta di palo in frasca: dal Bela Bartók teatrale, ma in forma di concerto, di A Kékszakállú herceg vára, o più semplicemente Il castello del duca Barbablù, alle composizioni di Mozart bambino (all’Auditorium il 20 e 22 febbraio).
D’Espinosa è un magnifico direttore siciliano under quaranta, con uno stile lucido e opulento, un controllo totale della partitura e una musicalissima capacità di fraseggio.
Fulcro d’interesse della serata è l’unico lavoro teatrale del compositore ungherese ispirato alla fiaba di Barbablù, vera pagina di cronaca nera e storia tra le più terrificanti per i bambini, quella col cattivo più cattivo: niente magia, niente mostri, ma solo una perversa smania di sangue, umana da cima a fondo e orrendamente occultata in un segreto mattatoio di ex mogli.
A dispetto della crudezza della fonte, lo scrittore e poeta ungherese Béla Balász ha scritto per Bartók un libretto sobrio e impalpabile, senza alcun momento splatter e con personaggi esilissimi, allo scopo di fare del castello il protagonista indiscusso dell’opera: un luogo-non-luogo scandagliato dagli insoliti sposini stanza dopo stanza fino a un totale di sette, in una metafora musicale sull’indagine di sé.
Insomma quello di Bartók è un Barbablù intimista, più vittima che carnefice e condannato all’ombra per la paura di conoscere se stesso.
Nonostante nell’opera niente succeda davvero, la musica è un capolavoro d’arte drammatica. A ogni stanza esplorata dalla coppia corrisponde una differente atmosfera musicale, anche se le parole ripetute dai due personaggi sono sempre monotonamente le stesse, quasi fosse un rito.
E come in ogni rito che si rispetti è il sangue ad avere il ruolo più importante. Così la giovane sposa trova sangue nei posti più impensabili: sui gioielli del tesoro, sui fiori del giardino segreto, persino nell’ombra delle nuvole.
E il sangue deve avere un suo tema nella partitura, che risuona inquietante senza sosta nell’orchestra. Ma non si tratta di un vero motivo ricorrente: è più ectoplasmatico, poco più di una suggestione musicale appena abbozzata, individuata però con sicura padronanza dal direttore, in compagnia per l’occasione di due cantanti notevoli. È infatti ottima la prova del mezzosoprano tedesco Dshamilja Kaiser, capace di fascinose mezzevoci anche nella difficilissima scena del lago di lacrime.
Davvero grandissimo poi il basso ungherese Kristián Cser, dal legato sicuro e perfettamente calato nel dramma del personaggio: una presenza scenica che varrebbe la pena vedere in teatro.
Nella prima parte del concerto si è eseguita la Prima Sinfonia di Mozart K. 16, insieme al Concerto per pianoforte n. 20 in Re minore K. 466, con il focoso Davide Cabassi come solista. Accostamento interessante, che mostra l’incolmabile distanza tra uno stile compositivo decaduto e senza smalto che poteva far suo anche un bambino di otto anni – senza nulla togliere al talento precoce del piccolo Mozart – e il drammatico capolavoro di un genio che con la semplice terzina iniziale dei contrabbassi è capace di penetrarci come con una lama.
Cabassi e d’Espinosa dialogano brillantemente con stile asciutto e deciso anche attraverso le sezioni più angosciose del concerto, come nella parte centrale della Romanza o nell’attacco del Rondò, per chiudere con magnificenza nel luminoso e sorprendente Re maggiore del finale.