Due film interessanti, apprezzati ai Festival di Venezia e Cannes, “Amira” di Mohamed Diab e “Mediterranean Fever” di Maha Hay, ora in circolazione in Italia, aprono finestre di conoscenza e riflessione sulla complessa e difficile condizione di vita di quel popolo. In bilico tra libertà sognata e occupazione israeliana, speranze di convivenza e crisi di coscienza individuale e collettiva
Due film in circolazione in questi giorni aprono finestre di conoscenza e riflessione sul mondo palestinese di oggi, sulla complessa e difficile condizione di vita di quel popolo, in bilico tra libertà sognata e semi-occupazione israeliana, convivenza e identità individuale e collettiva. La cosa sui nostri schermi non è affatto frequente, a parte il recente, ottimo 200 metri: occorre tornare indietro nel tempo al Giardino di limoni di Erin Riklis, con la straordinaria Hiam Abbas, per udire una voce di protesta di alto livello sul tema. Ora in Amira dell’egiziano Mohamed Diab (due anni fa alla Mostra di Venezia nella sezione Orizzonti), girato in realtà in Giordania ma ambientato nei Territori, la protagonista (interpretata dall’ottima Tara Abboud) è una studentessa 17enne, amante della fotografia (evidente metafora del mettere a fuoco la realtà e la propria relazione con essa e con se stessi al suo interno), che vive nella Palestina indipendente, ma di fatto controllata e subordinata dal governo di Tel Aviv. Il cui padre Nawar (Ali Suliman) eroe della rivolta nazionale, sconta una condanna a vita per terrorismo in un carcere israeliano. Quando l’uomo esprime a moglie e figlia il desiderio di essere di nuovo genitore, con la stessa pratica adottata per mettere al mondo Amira (cioè la fuoriuscita clandestina dei suo sperma per la fecondazione artificiale della partner, cosa avvenuta negli ultimi decenni in almeno in 100 casi reali analoghi, spiega il film) emerge una verità drammatica, fino a quel momento sconosciuta o comunque taciuta, che metterà in questione l’identità e la vita stessa della ragazza, oltre a sconvolgere relazioni ed equilibri all’interno delle famiglie dei due genitori.
Il film ha certamente il pregio di raccontare la pesante struttura patriarcale della famiglia, in cui la madre è assai rapidamente posta sotto accusa per gli aventi passati, e, con qualche tono efficace quasi da thriller, il coraggio della ragazza nel voler indagare sulla sua storia e la reale identità del padre, messa in dubbio da sconvolgenti scoperte. Il che non impedisce un finale che sembra voler ribadire, forse anche oltre il necessario, la spietatezza del dominio israeliano e la sua logica di ineluttabile violenza sui deboli.
Problemi forti di identità propone anche Mediterranean Fever diretto dalla regista israelo-palestinese Maha Haj, già autrice nel 2016 di Personal Affairs, apprezzato dalla critica nella selezione ufficiale di Cannes 2016. Questo suo film più recente è stato premiato per la miglior sceneggiatura a Un Certain Regard a Cannes 2022 e candidato poi dal suo paese all’Oscar 2023 come Miglior Film straniero. Qui siamo ad Haifa, nella vasta comunità palestinese della città (circa un terzo degli abitanti) è il racconto propone una ciriosa amicizia virile: da un lato c’è Waleed (Amer Hlehel), uno scrittore depresso alle prese con un blocco creativo, dall’altro Jalal (Ashraf Farah), un uomo vitale e dinamico immischiato in loschi traffici. La storia, fatta di contrasti, qualche incomprensione ma poi di vicinanza tra i due, ha per sfondo geografico e di atmosfera il mare, che fa sentire costantemente la propria presenza. In senso politico fa da sfondo la questione identitaria e nazionale dei due uomini, qui affrontata senza retorica da una regista dal tocco lieve e dallo sguardo profondo. Waleed è convinto di portare su di sé tutte le colpe del mondo e attende ancora di pubblicare il suo primo libro, perché perennemente alle prese con un blocco creativo; Jalal, dinamico e tutto proteso ai problemi della vita concreta, ricco di una sua spregiudicata vitalità, finisce per condividere col nuovo amico le sue attività assai poco nobili. I caratteri e le vicende personali dei protagonisti restano comunque sempre il cuore del film, confezionato come una commedia drammatica, anche qui con più di un tratto noir e sprazzi di umorismo non convenzionale. Waleed finisce per diventare il portavoce delle opinioni e dei pensieri quotidiani di Maha Haj. “Ho sviluppato una presa in giro del mio lato oscuro attraverso una persona che è simile, ma diversa da me”. Trovando anche, nonostante il finale tragico, momenti di irriverente divertimento.
La riflessione un po’ generale che sorge, partendo dalla depressione cronica di Waleed, individuale ma intrinsecamente sociale anche se il tema resta in sottofondo, per arrivare alla drammatica pulsione alla paternità di Nawar, in qualche modo anche compensativa di una condizione condizione carceraria parallela alla reclusione storica e politica di un popolo, è la constatazione che si fa ormai cronica la disperazione di una comunità. Sostanzialmente abbandonata dai principali attori della politica mondiale e per ciò stesso passata in secondo piano nell’agenda internazionale, la nazione (e la sua psicologia) pare divisa tra chi è ormai rassegnato alla resa a Nethaniau (cioè al peggio di quanto Israele abbia prodotto in quasi ottant’anni di esistenza) e chi ancora confida in una ribellione testimoniale ridotta all’invettiva assoluta o peggio a una violenza senza sbocchi. E anche quando la luce di un qualche ottimismo verso il futuro si è manifestata, come in 200 metri di Amen Nayfeh (2020), prevale purtroppo la sensazione che ciò sia assai più frutto della volontà che della ragione. E che la realtà sia probabilmente destinata a smentire questi volonterosi afflati.