A Tokyo con Depardieu, in cerca del quinto sapore. E di una vita più felice

In Cinema

Firmato dal franco-asiatico Slony Sow, “Il sapore della felicità” racconta la parabola di uno chef stellato che, all’apice del successo, vede da vicino la morte. Deciso a cambiare le basi della sua smodata e pericolosa esistenza, scompare per andare a caccia di un collega giapponese che potrà insegnargli un nuovo modo di gustare, in tutti i sensi, la vita. Un protagonista immenso, capace di far ridere e arrabbiare, per un film piacevole e ben confezionato. Che forse avrebbe potuto osare di più

Gabriel Cravin (Gérard Depardieu), chef stellato di grande successo e immensa infelicità, si ritrova in Il sapore della felicità a un passo dalla morte, complice una malsana abitudine a bere e mangiare in modo smodato e una certa incapacità di tenere sotto controllo il proprio cuore, sia come muscolo cardiaco che come centro pulsante di sentimenti e affetti. Dopo un complicato intervento chirurgico, e la triste scoperta che gli affari e la famiglia potrebbero benissimo sopravvivere anche senza di lui, il protagonista decide di partire per il Giappone, nel tentativo di trovare il segreto dell’umami, o forse semplicemente di una vita finalmente appagante. Arriva così a Tokyo, mettendosi sulle tracce di un vecchio chef che quarant’anni prima lo aveva battuto, strappandogli il primo premio in un’importante gara gastronomica. Un viaggio nel tempo, oltre che nello spazio, nel cuore vibrante di una cultura lontana, quasi incomprensibile, eppure tremendamente affascinante. Alla scoperta del quinto sapore: l’umami, appunto, che non è dolce, non è salato, non è amaro e non è neppure aspro.

Proprio Umami è il titolo originale del film firmato da Slony Sow, regista e sceneggiatore francese di origine asiatica. Uno su piazza da una ventina d’anni, senza particolare successo. E forse questa avrebbe potuto essere la volta buona, ma ci sarebbe voluto più coraggio. Prima di tutto il coraggio di prendere di petto la fisicità ingombrante di Gérard Depardieu e farne qualcosa. Magari qualcosa di urticante, fastidioso, politicamente scorretto, ma in grado almeno in parte di sorprendere. Invece la scelta è stata quella di costruire una sceneggiatura tranquilla e accurata, seguendo un personaggio dopo l’altro – mogli fedifraghe e figli ambiziosi, nipoti depresse e padri stanchi – e raccontando di tutti luci e ombre, ragioni e illusioni. E dimostrando così, alla fine, che i cattivi non esistono, perché in fondo tutti sono buoni, gentili e bisognosi di amore. E, se per caso a tratti non lo sembrano, è solo perché sono anime ferite in cerca di conforto e aiuto.

Depardieu resta comunque una meraviglia da vedere (e da ascoltare, se riuscite a vedere il film in originale), un attore immenso, debordante, capace di commuovere, ma anche di far ridere, sorridere, arrabbiare. Il risultato è un film che poteva essere più convincente, rinunciando a qualche stereotipo
francese e ad altrettanti in terra nipponica, ma resta piacevole, di quelli che si inseriscono a pieno titolo nella schiera dei feel-good movie. Niente di imperdibile, ma un’esperienza agrodolce intinta di malinconia e buoni sentimenti che si lascia vedere con piacere.

Il sapore della felicità, di Slony Sow, con Gérard Depardieu, Kyozo Nagatsuka, Pierre Richard, Rod Paradot, Sandrine Bonnaire

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