Sandro Mabellini racconta in scena una psycho versione della famosa favola di Perrault già rivista da Joel Pommerat dove la madre assume un ruolo da protagonista noir
Sandro Mabellini, regista, attore e performer, porta in scena in questi giorni allo Spazio Tertulliano Cappuccetto Rosso nella rivisitazione di Joël Pommerat. La fiaba di Perrault è nota a tutti, ma nella sua riscrittura Pommerat ogni elemento razionalistico, e ogni tipo di rassicurazione per il lettore.
In questa messa in scena gli archetipi vengono utilizzati per affrontare il tema dei legami familiari, soprattutto con la madre. Le scelte registiche risultano molto particolari: si avverte un linguaggio prettamente performativo, quasi criptico in un primo momento. Successivamente, appena lo spettatore inizia ad avere abbastanza chiavi per decifrarlo, cambia di punto in bianco assumendo una narrazione di tipo prevalentemente didascalico, che rischia di lanciare al pubblico spaesato.
Tuttavia lo spettacolo risulta spiccatamente ricco di spunti interessanti dal linguaggio, all’immagine, all’uso del racconto; ma questi elementi non risultano ben amalgamati tra di loro.
Verso la fine dello spettacolo si chiariscono diversi quesiti che vengono incontro allo spettatore per tutto il periodo precedente. Cappuccetto rosso è simbolo del passaggio della fanciulla dall’età infantile a quella adulta e nello spettacolo è chiaro che avviene nel momento in cui la bambina incontra il lupo travestito da nonna.
La bimba si scioglie la treccia, si toglie la mantella che diventa una gonna rossa, simbolo della verginità che sta per perdere. Nel coricarsi con il lupo-nonna ci porta sulla scena, in un dialogo che risulta quasi un monologo della bambina, tutte le incomprensioni che derivano dal rapporto con la madre.
La bambina diventa adulta quando ormai è troppo tardi, è condannata, non potrà salvarsi, il lupo-mamma è già lì. Alla fine la situazione ritorna quella della prima scena, la bambina in casa che è condannata dalla madre a non poter uscire nonostante lei stessa, quando era Cappuccetto rosso, avesse giurato di comportarsi diversamente da sua madre.
Alla fine il lupo sembra essere proprio la madre stessa, caratterizzata da una cattiveria apparentemente inspiegabile verso la figlia: qui tornano in gioco gli archetipi della gelosia verso la nuova generazione, verso il futuro. Basti pensare che nell’unico momento che la madre concede alla figlia finisce per fare un gioco in cui la spaventa.
Molto interessante risulta invece il loro cercare di tenere un registro che si possa adattare sia ai bambini, forse per questo l’uso di una narrazione didascalica e di immagini semplici, ma nello stesso tempo in cui anche gli adulti possano trovarci degli elementi che scatenino in loro un forte bisogno di riflessione.
Lo spettacolo è indubbiamente ricco di elementi da sviluppare con cura, il lavoro sul testo si vede che è stato svolto con attenzione, ma il risultato scenico non risulta carismatico quanto il resto.
Vengono usati giochi di luce e di suoni interessanti, che potrebbero essere richiamati in momenti successivi, ma che invece vengono persi per strada: questo risulta un peccato.