Laboratorio per il futuro è il titolo della 18 Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia che chiuderà i battenti il prossimo 26 novembre. Un tentativo di progettazione di un domani più sostenibile, senza però riuscire a sancire il ruolo del passato nel mettere a fuoco il futuro. Ce ne parla Emma Bozzi, pittore di professione, fotografo di quando in quando, giovane curiosa che scrive per tener vivo lo spirito critico che rende visibile ciò che spesso non lo è. Con queste riflessioni inaugura la sua collaborazione legata allo sguardo critico e alla necessità della riapertura di un dibattito sulle istanze contemporanee, in frenetica evoluzione generazionale.
Nel mondo realmente rovesciato il vero è un aspetto del falso, scriveva Guy Debord ne La società dello spettacolo del 1967. Considerazione che risulta attuale a qualsivoglia epoca la si attribuisca. Sono innumerevoli le circostanze in cui si verifica questo ribaltamento o ritrascrizione, che di fatto costituisce i processi culturali. Una tradizione di tradimenti, un gioco di parole etimologicamente legate. Dal latino tradere, scambiare, entrambi i termini presuppongono di fatto uno scambio del vecchio per il nuovo, in una costante rilettura del passato in chiave presente. Il passato è vivo e lotta insieme a noi, affiorando sulle spiagge della storia nella risacca del tempo.
Lesley Lokko, foto di Jacopo Salvi, courtesy La Biennale di Venezia
In questa diciottesima edizione della Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia – che fino al 26 novembre espone ai Giardini, all’Arsenale e a Forte Marghera il lavoro di 213 artisti da 58 nazioni sotto il titolo di Laboratory for the Future – il raggiungimento della neutralità carbonica, la decolonizzazione e la decarbonizzazione sono i temi scelti per l’occasione. Scrittrice e architetta scozzese con cittadinanza ghanese, la curatrice Lesley Lokko ha interpretato questa possibilità per innescare nuove modalità d’azione, come agente di cambiamento. La scelta stessa della curatrice, estranea ai grandi circuiti dello star system, presupponeva un cambio di rotta rispetto alle egemonie di globalizzazione e spettacolarizzazione della ricerca architettonica ed artistica. Ma dedicare una Biennale a tematiche tanto scottanti ed attuali non può che attirare aspettative altrettanto consistenti, con il rischio che risultino deluse. Riprogettare il futuro non è un impresa semplice, soprattutto se ancora non risulta a fuoco il passato. L’architettura langue tra progetti, studi ed indagini sociologiche, sostenibile sì, ma poco solida. Si riconferma il primato di un estetica relazionale, di progetti che implicano una partecipazione collettiva, eventi ed incontri, evidenziando la necessità di nuovi spazi di aggregazione senza però darvi forma e struttura. L’impressione è che l’archittettura, l’arte più popolare nell’essere realmente vissuta da tutti, rispecchiando le dinamiche contemporanee oscilli tra interventi di immediata lettura e consumo e complessi sistemi di analisi delle forme sociali che rivalutino la coesistenza come possibilità di ripristinare un linguaggio dimenticato in fede dell’individualismo.
Non sono da meno le partecipazioni nazionali: il padiglione americano, ad esempio, elegge il disilluso sogno utopico della plastica a protagonista, tra i colori e l’odore acre di plastiche parcellizzate e riutilizzate in sculture di oggetti d’uso. D’effetto istantaneo, immagini spettacolari per il web.
Padiglione Brasile, foto di Matteo de Mayda, courtesy La Biennale di Venezia
Ma il vero pretesto per l’introduzione al falso storico è platealmente fornito dal Padiglione del Brasile, vincitore del Leone d’oro per la miglior partecipazione nazionale, che propone una riflessione su passato presente e futuro del Brasile a partire dalla Terra in quanto suolo, fertilizzante, territorio, memoria e futuro. Un excursus sulla storia di Brasilia tenta di ricontestualizzare la città modernista come atto di emarginazione della comunità indigena, in una trascrizione attuale del vissuto storico dal punto di vista dei locali. Città pianificata nata nel 1956 ed ancora in costruzione, dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità, Brasilia si situa tra le innumerevoli città di fondazione di cui ogni epoca reca traccia. Dalle civiltà più antiche fino ad oggi, ognuna di queste città testimonia la volontà storica per cui nacque, esperimenti di ingegneria sociale ed espressione di una data modernità. Lucio Costa, modernista ateo ed autore della pianificazione urbana di Brasilia, tracciò una X designandola a centro della città, centro geometrico del paese. La riscrittura proposta al Padiglione del Brasile, curato da Gabriela de Matos e Paulo Tavares, vede quella semplice X diventare una croce cristiana, in una drammatica e colonialista rievocazione religiosa. Inutile dire che un simile travisamento possa risultare utile alla narrazione di un progetto in una biennale sulla decolonizzazione, ma riveste il passato di una cortina menzognera in cui il colonialismo è più presente di quanto in effetti fosse.
Padiglione Italia, foto di Marco Zorzanello, courtesy La Biennale di Venezia
Il padiglione italiano presenta invece la coralità come laboratorio del futuro. Il titolo: SPAZIALE. Ognuno appartiene agli altri. Un richiamo chiaro alla tradizione scultorea italiana dello spazialismo nell’omnicomprensione dello spazio, tra tempo, arte, scienza e tecnologia. Uno spazio vuoto, informativo, ad introdurre il visitatore all’allestimento della seconda sala delle Tese delle Vergini, sede del padiglione. Il giovane collettivo Fosbury Architecture in veste curatoriale apre il territorio italiano alla ricerca. Nove diversi gruppi affiancati da altrettanti advisors, per nove diversi luoghi simbolici delle criticità italiane. Il progetto è diffuso, nello spazio e nel tempo, di eventi ed iniziative esterne alla biennale, mirato allo stimolo e l’attivazione delle comunità coinvolte. La ripresa di modelli d’azione corali piuttosto che di singoli rimanda ad un idea di collettività più semplici e piccole. Una maggiore collaborazione si situa come ipotesi di resistenza, valorizza le peculiarità del luogo grazie all’intervento di progettisti di tutto il mondo e traducendo i termini di globalizzazione e post-colonialismo in chiave positiva. Complesso, a tratti di difficile comprensione ma ben articolato nello spazio e nel tempo. Lo sguardo dominante resta però in generale quello del passato, dove gli stessi temi ritornano in negativo.
Padiglione Svizzera, foto di Matteo de Mayda, courtesy La Biennale di Venezia
Tra i più apprezzati, infine, il padiglione della Svizzera, dal titolo Neighbours, propone un’ assenza. L’interpretazione dello spazio, il riattivare spazi e materiali del luogo, la ricostruzione e rivalorizzazione, senza necessità di cancellare il passato o relegarlo all’oblio o travisarlo, in un mondo di iper costruzione, può essere uno sguardo alternativo e vincente. Un solo grande tappeto bianco su cui salire a piedi scalzi copre il pavimento della sala espositiva, riportando in nero i disegni di Carlo Scarpa della struttura del padiglione stesso. Costruito nel 1952 da Bruno Giacometti, il progetto fu poi replicato dal collega ed amico Scarpa quattro anni più tardi per la costruzione dell’attiguo padiglione Venezuelano. Il muro di confine tra i due edifici è stato per l’occasione demolito dai curatori ed espositori di Neighbours, Karin Sander e Philip Ursprung. In un gesto utopico si risolvono riflessioni sullo spazio, la condivisione, la prossimità, l’identità svizzera stessa e quel contegno che consente la convivenza. Evitare la marginalizzazione dell’individuo come la storia ci ha insegnato anzichè insitere su revisionismi che diano più risonanza a ciò che è desiderio comune cambiare. Ritrovare lo spirito di edificazione del futuro che ha fondato nel tempo le città pianificate potrebbe rivelarsi il modo più profiquo per costruire il domani guardando al passato.
Biennale Architettura 2023, 18.Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, fino al 26 novembre 2023
Foto di copertina di Jacopo Salvi