Con “Dogman”, il suo film n. 20, il regista francese torna in grande spolvero a quel cinema pop e ipercinetico che gli ha portato fortuna fino a una decina d’anni fa. E nel raccontare la storia del giovane e sempre maltrattato Douglas (Caleb Landry Jones, già premiato a Cannes e anche qui molto intenso), cresciuto in gabbia insieme ai suoi amati cani da combattimento, alterna dolore e dolcezza. Con il coraggio dell’enfasi e l’assoluta indifferenza a ogni banale criterio di verosimiglianza
Douglas (Caleb Landry Jones, strepitoso protagonista di Dogman, il nuovo film di Luc Besson) è cresciuto in una gabbia, insieme ai cani da combattimento che un padre feroce affamava e maltrattava, con l’attiva collaborazione di un fratello sadico ma sempre pronto a invocare la benedizione di Dio. Douglas ha resistito, è sopravvissuto nonostante tutto, ma le angherie e gli abusi lo hanno trasformato in una povera creatura dalla schiena spezzata e dal cuore in frantumi. Un disadattato, un randagio che ha bisogno di crearsi una maschera, per nascondere la propria anima ferita e continuare a vivere (e persino cantare, immaginandosi nei panni di Edith Piaf, Marlene Dietrich e Marilyn Monroe).
Una vita alla deriva che trova la sua forma di salvezza proprio nell’amore per i cani, in un rapporto di affetto e simbiosi che scalda il cuore, anche quando si trasforma in un’arma letale, pericolosamente in bilico tra giustizia e vendetta. E in bilico in fondo rimane dall’inizio alla fine anche il film, tra dolore e dolcezza, horror e melodramma, speranza e disperazione, raccapricciante violenza e infinita tenerezza.
È un film di lancinanti contraddizioni Dogman, 20° titolo della filmografia di Luc Besson, campione tra gli anni Ottanta e i Novanta di un cinema ultrapop, ipercinetico, pieno di magnifica energia e di una capacità tutt’altro che banale di mescolare e contaminare generi e ingredienti per creare opere magari non raffinatissime ma spesso capaci di lasciare un segno nell’immaginario collettivo. Dopo una serie di film poco convincenti nell’ultimo decennio, in Dogman sembra recuperare proprio l’energia di Nikita e Lèon, e il risultato è a tratti sorprendente. Certo, molto del merito va riconosciuto al protagonista, Caleb Landry Jones (già premiato a Cannes come miglior attore nel 2021 per Nitram di Justin Kurzel), capace di un’interpretazione sincopata, a tratti sopra le righe ma mai caricaturale, una performance intensissima, talmente ricca di sfumature psicologiche da rendere il personaggio di Douglas davvero memorabile.
Ma se questa storia di sofferenza e riscatto, messa in scena come una fiaba noir – al grido di Non, rien de rien, non, je ne regrette rien. Ni le bien qu’on m’a fait, ni le mal. Tout ça m’est bien égal. – riesce a conquistarci è anche e soprattutto per il coraggio dell’enfasi, che a tratti diventa pura e semplice esagerazione, oltre alla tranquilla indifferenza nei confronti di ogni banale criterio di verosimiglianza. Insomma, quella forza spavalda con cui Besson ci spinge ad amare il suo eroe malconcio e incompiuto, tenero e respingente, in cerca di un’impossibile redenzione o forse solo di un abbraccio e un po’ di autentica compassione.
Dogman di Luc Besson, con Caleb Landry Jones, Jojo T. Gibbs, Christopher Denham, Grace Palma, Clemens Schick