Ha senso usare in Italia un termine, woke, così radicato nella cultura e nella storia americana oppure è il sintomo di un’appropriazione superficiale e di moda? Considerazioni linguistiche e non sul fenomeno di cui tanto si parla e si sparla..
L’altro giorno, su Lo Specchio, l’inserto della Stampa, ho letto un articolo molto interessante di Carlo Pizzati che si intitolava ‘Tu woke fa’ l’americano’. Il titolo è perfetto e infatti sono rimasta stupita di come anche in Italia si usi la parola woke: come ha cominciato a girare? Ma soprattutto: come potrebbe mai aver senso l’origine della parola in un Paese che ha una fabbrica sociale, una storia e una struttura così diversa dagli Stati Uniti? Fortunatamente, grazie all’articolo, sono riuscita a capire cosa sta succedendo, ma rimango comunque stupita.
Prima di tutto: cosa significa woke e a cosa si riferisce? Significa rimanere allerti, svegli e si riferisce all’attenzione da dare ai pregiudizi razziali e alle discriminazioni che esistono da sempre e son considerati parte integrante della società. In realtà non è un termine nuovo: tra la popolazione nera statunitense degli anni Trenta, si usava il termine stay woke proprio per ricordarsi di tenere gli occhi aperti a ingiustizie sociali. Ma il movimento Black Lives Matter se ne è (giustamente) riappropriato nel 2014, durante le manifestazioni in Missouri dopo l’uccisione di Michael Brown per mani di poliziotto (bianco, tanto per cambiare). Da allora, attorno a questo aggettivo si è creata una controcultura il cui obiettivo è di proteggere le minoranze, soprattutto i neri e la popolazione LGBTQ. Per questo, si cerca di cambiare la cultura che finora ha soggiogato questi gruppi utilizzando un linguaggio più moderno e meno aggressivo per creare sensibilizzazione. Ma non solo: si fanno notare appropriazioni storiche, ideologiche; si apre gli occhi di fronte a discriminazioni a cui noi siamo talmente abituati da non accorgercene più. In poche parole, è una versione ancora più radicale del politically correct, tanto odiato dalla destra italiana e da chi insiste a dire che la parola mongol***e si può ancora usare.
Non è odiato solo in Italia, anche negli Stati Uniti, il movimento woke ha creato forti divisioni politiche. La destra, dai moderati ai trumpiani, lo considera un obbrobrio, perché attacca quelle che sono le posizioni tradizionaliste della cultura, quali la famiglia, l’uomo bianco eterosessuale a capo della famiglia e della Nazione, che va in chiesa la domenica e ogni volta che sente la parola gay ha un attacco di orticaria che non passa più. La sinistra, soprattutto quella radicale che mette in discussione da sempre questi valori, lo considera un movimento necessario per tentare un volo in avanti verso una società meno ottusa. Da molti è considerato piuttosto superficiale, perché non è dalle parole che si fa la rivoluzione. Non solo: spesso può essere usato per cancellare quelli che sono i successi culturali o politici del passato. Un esempio è una mia cara amica, che insegna storia del femminismo all’università. Durante una lezione, ha cominciato a parlare di Michele Foucault ed è stata interrotta da un paio di studentesse che insistevano di non avere nessuna intenzione di studiare un uomo bianco europeo perché ”troppo privilegiato”. La mia amica mi ha chiamato piangendo di rabbia: Ma questi studenti sono cretini!, insisteva a dire. Non ha tutti i torti: come ogni nuovo movimento, anche questo dovrà toccare apici inverosimili prima di trovare un equilibrio interno più, come dire, accettabile. Eppure, essendo loro il mio strumento di lavoro, sono convinta che le parole abbiano un peso invece enorme. Mamma di un figlio disabile e di una figlia queer, fortunatamente sono ormai rare le volte in cui mi sento umiliata da alcuni termini usati per descrivere i miei ragazzi. E sono convinta che sensibilizzando le persone ad usare termini non offensivi si può arrivare a una sensibilizzazione più profonda nei confronti dell’altro. E forse è anche per questo motivo che il termine woke usato in Italia mi stona e mi irrita. Sono anche aperta a un discorso più inclusivo dal punto di vista culturale: sarebbe bello studiare pittrici donne, filosofe donne, magari addirittura non europee e non cristiane!
Benché queste siano lotte che dovrebbero essere abbracciate da molta parte del mondo, prima di usare una parola straniera, valuto importante capirne la storia e la provenienza. Come si sa, gli Stati Uniti sono stati teatro di lotte contro la discriminazione, diritti uguali per tutti; oltre allo schiavismo, apice della bruttezza dell’essere umano, ci sono state battaglie importanti anche negli anni sessanta e settanta, con Martin Luther King e Malcom X per primi e poi con i Black Panther, i movimenti sovversivi underground; le battaglie per i diritti di gay e lesbiche newyorkesi sono storiche, iconiche. In Italia ci sono state altre battaglie, altrettanto importanti per la cultura e società italiana, ma fino a tre settimane fa, quando ero a Milano, le uniche persone di colore diverso dal mio le ho viste con una mano tesa fuori dai supermercati. Come si può dunque utilizzare un termine così impregnato di cultura afroamericana ed usarlo in un contesto completamente diverso? Forse sono anch’io un po’ woke, ma puzza molto di appropriazione culturale, addirittura sminuisce l’importanza che ha tuttora negli Stati Uniti. Il discorso sui diritti della popolazione LGBTQ è identico: in Italia, Paese sfortunatamente molto cattolico, si sta ancora parlando di diritti che qui sono stati conquistati vent’anni fa.
Queste considerazioni possono essere fatte anche per questioni molto meno importanti: l’espropriazione di Halloween, del tacchino a novembre, i milioni di termini anglosassoni entrati nella lingua italiana a cui si danno significati diversi da quelli originali, non sono che piccoli esempi di come superficiali siamo diventati tutti noi, di quanto riusciamo a strappare i significati anche più profondi a parole e concetti per poterle usare e fare quelli che sono all’avanguardia.
È un po’ come chiamare partigiani gli americani che occupano il Campidoglio per salvare l’America: anche no.
Foto in apertura: Tony Zhen/unsplash