Donne che si prostituiscono, uomini che dispensano soprusi, case fatiscenti in riva al mare, bambini capaci perfino di giocare. E un ballerino, che non è più ragazzo ma mai diventerà uomo: sente l’amore, percepisce il dolore e soprattutto la paura. E’ la Sicilia della regista palermitana, che porta sullo schermo un suo testo teatrale. Un’operazione rivolta all’astrazione, ma senza perdere di vista la sostanza vischiosa della realtà, fatta di carne, viscere, violenza, fango. Che chiude ogni via d’uscita
Da qualche parte in Sicilia, una manciata di case fatiscenti in riva al mare e una piccola comunità di infelici raccolta intorno a una discarica, all’ombra di una montagna che si sgretola e incombe minacciosa. L’intero borgo è di fatto una discarica, un universo affamato d’amore e impregnato di violenza. Quello di Misericordia di Emma Dante è un mondo chiuso, popolato di donne che si prostituiscono (con i corpi, i volti, le voci di Simona Malato, Tiziana Cuticchio, Milena Catalano) e uomini che conoscono solo soprusi e miseria; e bambini, tanti bambini che riescono nonostante tutto a trasformare gli stenti quotidiani in occasioni di gioco, momenti di sfida persino eroica, scoperte e risate.
In mezzo a loro, come un perno che gira su sé stesso e in questo movimento trascina tutti gli altri, pur essendo in apparenza inconsapevole di tutto, troviamo Arturo (interpretato dal ballerino Simone Zambelli), che non è più un bambino ma non diventerà mai un uomo. Come un derviscio danza roteando sui piedi nudi, instancabile e ottuso, come un animaletto non parla e sembra incapace di comunicare, ma sente l’amore, percepisce il dolore, e soprattutto la paura. In particolare quando si trova nelle vicinanze di suo padre, l’orco che si fa chiamare Polifemo (un inquietante, bravissimo Fabrizio Ferracane) e vede il mondo con un occhio solo, governando il destino di tutti con animo malvagio e mani rapaci, quelle stesse mani che anni prima hanno ucciso a botte la mamma di Arturo, giovane prostituta colpevole solo di aver immaginato un’altra vita, tentando di fuggire. Una fuga che forse qualcuna ancora sogna, ma probabilmente è solo un’illusione: insieme alla dignità anche la capacità di desiderare la libertà sembra ormai smarrita.
Emma Dante ha portato sullo schermo ancora una volta un testo nato per il teatro, da lei stessa scritto e rappresentato con successo, e non ha avuto paura di pescare di nuovo nel grande mare della miseria umana, alla ricerca di qualche sprazzo di verità – amara, a volte atroce, ma sempre meritevole di essere raccolta, illuminata, rielaborata. Un’operazione che mira all’astrazione, alla costruzione di un piano simbolico del racconto, ma senza mai perdere di vista la realtà, la sua sostanza vischiosa, fatta di carne, sangue, viscere molli e fango che imprigiona e chiude ogni via d’uscita. Ogni speranza.
Anche se, in effetti, la forza dei corpi messi in scena – pur nella loro nudità assoluta, nella loro fragilità senza rimedio – è tale da mostrare la sofferenza e al tempo stesso curarla, esplorare il male e farlo deflagrare, in una dimensione quasi sacra, dove disperazione e dolcezza, brutalità e amore trovano un senso. Nonostante tutto. Un film potente, viscerale, coraggioso, che si nutre di passione e di bellezza ed esplora fino in fondo il senso della maternità come prendersi cura. Non certo per caso, Emma Dante lo ha dedicato al figlio Dimitri, adottato qualche anno fa. Marina Visentin
Un femminismo atavico in un mondo caotico di morte e sangue
È un mondo caotico quello di Emma Dante: niente è ordinato, compìto. Tantomeno nel suo ultimo film, Misericordia, tratto dal suo lavoro teatrale dallo stesso titolo. L’ordine, la Dante lo lascia a chi ha bisogno di acquietarsi. A lei per esprimersi serve scuotere, denudare, urlare. Anche se riesce a compiere tutte queste azioni con una freddezza assoluta, lama di precisione che non sbava mai, e lascia solo una scia di sangue sottile, senza fiotti. La scia è così esile anche quando semina morte, come nel caso della prostituta Lucia che sin dalle prime scene del film viene finita a suon di pugni dal suo pappone perché rea di voler fuggire col suo bambino appena nato. La violenza è assoluta, ma avviene sotto il sole radioso, il mare sembra quasi più violento delle percosse; la natura indifferente e bellissima sembra avvallare la sorte di Lucia, regalandole almeno una bara di acqua cristallina. Il lascito di questa bellissima bruttura è un neonato abbandonato in un crepaccio. Una vita in cambio di una morte.
Il neonato diventa Arturo (Simone Zambelli) che, forse per i colpi ricevuti in pancia della madre, è un uomo col cervello di un bambino, una figura esile e bianchiccia che rincorre le pecore e volteggia nella spazzatura. Vive in un cumulo di case fra due insenature, baracche tenute su con lo sputo, che a volte l’acqua allaga. È un villaggio di anime perse, di prostitute dai corpi sfatti, di poveri cristi che cercano di sopravvivere. Arturo vive con Betta (Simona Malato) e Nuccia (Tiziana Cuticchio), due corpi come gli altri, uno secco e l’altro massiccio, due donne che lo difendono dall’esterno, che lo accudiscono mentre litigano fra di loro e con la vita intera. Arturo non parla, così le parole che gli rivolgono Betta e Nuccia sono soliloqui fatti di rimproveri, canzonette, ordini e parole d’amore che raramente prendono la strada della tenerezza, in un luogo, come quello, dove la tenerezza è una merce che ha un costo da borsa nera, inaccessibile.
A Nuccia e Betta dopo un po’ si aggiunge Anna, prostituta anche lei ma bella e giovane (Milena Catalano), che poco a poco completa il trittico di madri di Arturo, seguendolo nei suoi giri senza meta, entrando nella fitta ragnatela di filo di lana che il ragazzo crea in mezzo ai muri in rovina, unica costruzione poetica della sua vita muta. È una ragnatela simile all’altrettanto fitta rete di protezione femminile che le tre donne intessono ogni giorno attorno ad Arturo, per salvarlo dal magnaccia Polifemo (Fabrizio Ferracane), colui che ha ucciso la sua mamma e che non vuole vederselo attorno, immagine troppo luminosa di uomo rispetto all’anima tetra dell’assassino.
Arturo ricambia le sue donne con i pochi splendidi doni che ha, la purezza, l’innocenza, la speranza. E tanto basta loro. Ma quando sarà l’ora di preservare questi doni, non esiteranno a privarsene loro per poter permettere ad Arturo di conservarli integri nella sua valigina, insieme ai suoi fumetti, a una copertina fatta ai ferri da Nuccia e a poco altro, lasciandolo partire verso una vita forse migliore, di certo priva di quell’amore totale che ha ricevuto sotto le lamiere.
È un cinema profondamente femminista quello di Emma Dante. E Misericordia lo è ancora di più, perché nel degrado le vincitrici morali sono Betta, Nuccia e Anna, coloro che impavide asciugano ogni volta l’acqua che invade la loro baracca, così come passano un colpo di spugna sulle brutture della loro vita. È un film femminista quando, senza aggiungere una sola parola, mostra la povera stanza piena di uomini in attesa che Anna si liberi nella camerina accanto. Sono tanti, davanti alle lattine di birra, che ascoltano in silenzio l’ansimare del loro predecessore, attendendo il loro turno, come se dall’altra parte ci fosse una scatola da riempire e non il corpo di una donna. Emma Dante non mostra niente, solo lattine di birra accartocciate, l’acqua che lambisce i piedi degli uomini, una mandria ottusa. E ci si sente morire dentro per la brutalità di una scena da niente. Ci si sente dilaniati quando Anna riemerge a fatica dalla stanzetta la mattina dopo, o quando la si vede tornare da un appuntamento en travesti, con le ali di un angelo sulla schiena, per buttarsi nel mare nel tentativo di mondarsi.
Ma quello di Emma Dante non è un femminismo for dummies, non spiega troppo e non chiede riconoscimenti. Urla forte le sue ragioni attraverso i colori accesi, le svelte parole in dialetto, la brutalità dei corpi sfatti, la poca e imprevedibile innocenza. Il suo è un femminismo atavico, che rivendica questa immensa capacità delle donne di avere misericordia, sempre, in qualsiasi circostanza. Il desiderio di alleviare le pene altrui, di opporsi con forza all’orrore, di poter cambiare la sorte se non di sé stesse, almeno quella altrui. Non a caso Misericordia non è dedicato alle donne, non ne hanno bisogno, loro. È dedicato a suo figlio Dimitri, che impari a essere uomo migliore, con la poesia di Arturo, la forza della natura e l’amore delle donne. Francesca Filiasi
Misericordia, di Emma Dante, con Simone Zambelli, Simona Malato, Tiziana Cuticchio, Milena Catalano, Fabrizio Ferracane