Nell’ultimo film del regista inglese, passato al Festival di Cannes, va in scena la ripulsa di un gruppo di abitanti xenofobi per l’arrivo in città di varie famiglie di profughi siriani. Quando il padrone dell’amato pub sceglie di aiutare i rifugiati a sopravvivere, dando loro anche un luogo dove incontrarsi, divampa il conflitto tra solidarietà e intolleranza. Un film civile sull’incontro tra le genti, un reportage di fiction in luoghi poco glamour ma significativi, una lezione sul potere comunicativo e istruttivo delle immagini
“Non è beneficenza, noi facciamo solidarietà”, dice uno dei protagonisti di The Old Oak di Ken Loach, opera numero 27 (secondo l’87enne regista sarà anche l’ultima, ma non è la prima volta che lo dice) di uno dei più grandi cineasti europei contemporanei, che nella sua carriera, in oltre 60 anni, ha realizzato anche 22 lungometraggi per la tv e una manciata di corti e documentari. Giustamente la battuta sta nel trailer del film, passato all’ultimo festival di Cannes dove pochi anni fa ha vinto la Palma d’oro con lo splendido Io, Daniel Blake ambientato come quest’ultimo nella non allegrissima Newcastle, Inghilterra del Nord, teatro di grandi contrasti tra slancio umano verso gli altri, soprattutto se in condizioni povere e sfortunate, per cause individuali o collettive, e ottusa chiusura all’idea di aiuto, di sostegno a qualcuno che sta peggio di te, anche se magari non parla la tua lingua.
In questo caso siamo di fronte a un caso di intolleranza etnica, razzismo esplicito, perché il gruppo di frequentatori abituali del pub (the old oak appunto) che è la scena di gran parte del racconto, non tollerano l’arrivo in città di un gruppo di profughi siriani, scappati alla guerra e ai massacri del presidente Assad e dei suoi nemici. L’ostilità verso di loro, già colpevoli, come si sente dire spesso anche dalle nostre parti, di rubare gli aiuti, il cibo e il lavoro agli impoveriti paesi europei e ai loro cittadini meno benestanti, raggiunge il culmine quando il proprietario del locale, che forse non a caso si chiama Ballantyne come lo storico whisky, decide di rimettere in sesto una stanza nel retro del locale per organizzare una mensa di sostegno ai piccoli e grandi rifugiati. E farne anche un luogo di incontro, svago, sollievo per questa gente disperata. O addirittura, nelle sue speranze di vecchio militante progressista in una regione di fieri e combattivi minatori, un punto di contatto tra i suoi concittadini e persone che vengono da tanto lontano. Un ponte per combattere la “guerra di civiltà” che imperversa nel mondo.
Non avrà fortuna, il locale, utile, bello e ben funzionante nella sua nuova veste, verrà distrutto da un incidente doloso, la rivalsa di un gruppo di vecchi egoisti che poi festeggeranno il ritorno del locale al suo unico, tradizionale uso, una pinta e un bicchiere. Ma il finale, che è giusto non spoilerare, riaccenderà comunque la speranza dell’incontro e della solidarietà in Ballantyne e nella sua amica Yara (è l’attrice siriana 25enne Ebla Mari), giovane aspirante fotografa siriana di cui è diventato amico. Anche grazie alle bellissime foto delle storiche lotte dei miners della zona appese nel locale.
The Old Oak, sceneggiato – ormai è una coppia fissa – insieme a Paul Laverty, è come tutti i film di Loach un reportage di fiction in un mondo poco glamour, è un’orazione laica e civile a favore della comprensione, del dividere con altri in difficoltà quel, magari poco, che abbiamo. E’ anche un omaggio all’immagine, fotografica in primis ma anche implicitamente filmica, alla sua capacità di raccontare il mondo e i suoi eventi, compresi i protagonisti meno noti. Non raggiunge forse il livello di rifinitura, perfetto, dei personaggi di Io, Daniel Blake, perché tornando un po’ indietro nella sua storia d’autore esce dal racconto di caratteri singoli prevalenti (era così anche nel suo penultimo film, Sorry, we missed you) per riprendere un discorso corale, che in questo caso porta sullo schermo non più un confronto di classe (lo era stato, suggerisce l’autore, quello dei minatori contro la Thatcher) ma una guerra tra poveri che finisce per portare alla sconfitta di tutti.
In questa ripresa del peso collettivo del racconto forse si perde un po’ di definizione dei singoli, anche se non si può fare a meno di comprendere che alla fine “the old oak”, la vecchia quercia, è lui, quest’uomo (lo interpreta con rocciosa empatia Dave Turner) che ha sempre vissuto mescendo alcolici in un pub certo non dei più lussuosi, che probabilmente non ha fatto grandi studi né frequentato il mondo che tanti di noi spesso percorrono, ma dimostra di capire come comportarsi. E quali sono le scelte giuste da fare proprio verso chi da una terra remota approda nel nostro paese, sconvolto ma anche, nonostante tutto, speranzoso di trovare comprensione.
The Old Oak, di Ken Loach, con Dave Turner, Ebla Mari, Debbie Honeywood, Reuben Bainbridge, Claire Rodgerson, Trevor Fox, Rob Kirtley, Andy Dawson, Chris Gotts, Lloyd Mullings, Joe Armstrong