Stefano Sollima chiude l’ideale trilogia aperta da “Acab” e proseguita con “Suburra” dipingendo una capitale in preda a incendi e black-out, ripresa come fosse Los Angeles: un inferno in terra di vicoli lerci dove non si salva nessuno, dai carabinieri corrotti ai vecchi criminali. Interpretati al meglio da Toni Servillo e Pierfrancesco Favino, Valerio Mastandrea e Adriano Giannini. E anche il giovane (e bravo) Gianmarco Franchini finisce incastrato in un gioco decisamente più grande di lui.
L’apocalisse è arrivata e Roma non sarà risparmiata. E come potrebbe? È indiscutibilmente la città eterna la protagonista dell’ultimo film di Stefano Sollima, che chiude idealmente la trilogia iniziata nel 2012 con Acab e proseguita con Suburra nel 2015. Una chiusura che suona come un requiem, anche per i tanti elementi distopici che costellano il racconto, dall’incendio che si sta letteralmente mangiando l’orizzonte ai continui blackout che immobilizzano nel buio buoni e cattivi, protagonisti e comparse di questo inferno in terra da cui è stata cancellata con cura ossessiva anche la più piccola traccia di bellezza. Spariti i monumenti, svaniti nel nulla i quartieri storici, quelli di cui basta riprendere uno scorcio per identificare un’atmosfera, di Roma restano sullo schermo vicoli lerci e strade intasate di traffico, appartamenti fatiscenti e torride terrazze, e un sole bianco che acceca e uccide. Come ha dichiarato lo stesso regista, l’idea era di riprendere il movimento, descrivere Roma come fosse Los Angeles: strade e incroci, scatti e frenate, traiettorie sincopate, grovigli di asfalto rovente, scie luminose nella notte buia, e su tutto una pioggia nera da fine del mondo.
Su questo sfondo si muovono i personaggi: un ragazzino incastrato in un gioco decisamente più grosso di lui (il giovane e bravissimo Gianmarco Franchini), carabinieri corrotti (Adriano Giannini e Francesco Di Leva), vecchi criminali dai nomi che sono tutto un programma – Daytona, Polniuman e Cammello, rispettivamente, Toni Servillo, Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino – dal destino inevitabilmente segnato. Personaggi che sono un distillato di letteratura e cinema noir, in un intreccio fascinoso di rimandi interni ed esterni, dalla banda della Magliana protagonista di Romanzo Criminale al Vic Mackey di The Shield. Adriano Giannini nei panni del carabiniere Vasco riesce a incarnare con feroce convinzione la furia devastante dell’arroganza che si pretende impunita, dell’avidità che non sente ragioni, e Favino, Servillo e Mastandrea si confermano interpreti davvero d’eccezione, dipingendo tre memorabili maschere del disincanto e del dolore, fantasmi del passato, che abitano le loro case come spettri in attesa del giusto castigo, o dell’estremo (impossibile) istante di redenzione.
La parte più debole del film finisce con l’essere la sceneggiatura, a partire da un incidente scatenante iniziale di rara banalità: un video che dovrebbe incastrare per pedofilia un noto esponente della politica romana e di cui non si capisce bene la pregnanza, dal momento che scopriamo ben presto che di videocamere ce n’è dappertutto. Anche dove nessuno si aspetterebbe. La costruzione della trama, in effetti, in più di un momento non arriva a convincere, esitando tra divagazioni e ambiguità più che apprezzabili e colpi di scena non esattamente sorprendenti. Insomma, nessun congegno a orologeria che ci trasporti a gran velocità verso il finale. Ma non importa, secondo me. Perché dipende dai punti di vista. E dalle aspettative. In fondo, raccontare storie non è mai davvero una questione di intreccio e basta. È una questione di senso. E di atmosfera. A maggior ragione se parliamo della notte disperata del noir in cui Adagio si inserisce a pieno titolo, raccontando la sua storia di padri e di figli, di ferocia, disperazione e riscatto. Nonostante tutto.
Adagio di Stefano Sollima, con Gianmarco Franchini, Pierfrancesco Favino, Adriano Giannini, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Francesco Di Leva