“Goya. La ribellione della ragione” è la grande mostra a cura di Víctor Nieto Alcaide a Palazzo Reale di Milano fino al 3 marzo 2024, che racconta, attraverso dipinti, incisioni e matrici in rame, il mondo di Francisco Goya, la sua esperienza della Storia, la sua attitudine di artista, il suo pensiero e i suoi ideali. Aronne Pleuteri, giovane artista di spirito affine, con piglio acuto racconta il suo incontro con il contraddittorio e fondamentale Maestro spagnolo tra le sale della mostra.
Ad introdurre la mostra Goya. La ribellione della ragione, a Palazzo Reale di Milano fino al 3 marzo prossimo, è un piccolo autoritratto dell’artista realizzato con diverse tecniche di stampa che, oltre a un insieme di segni, consiste anche, per i più impavidi, in una presenza. E’ il suo sguardo che ci getta nella Spagna della fine del XVIII secolo, lo sguardo di uno spirito che dietro al peso dei suoi vestiti eleganti fa finta di non averci notato e che invece, con sommessa mestizia, ci accompagnerà per tutta la visita.
Nella prima sala ritratti e cornici dorate, e un bellissimo Annibale incredulo e vincitore che dalle montagne guarda per la prima volta l’Italia. Riecheggia Tintoretto. Si tratta del primo periodo del pittore, quando cerca in ogni modo di vincere dei concorsi, uno anche all’accademia di Parma, e invece li perde tutti e poi, per qualche strano meccanismo della Storia, inizia la sua carriera nelle corti di Spagna.
Questa carriera inizia bene e Goya, in fondo ma anche non in fondo, è compiaciuto, e compiacente, perché sta andando bene e questo è quello che ha sempre voluto, inizia a indossare i cappotti di lusso, e le tube nere ingombranti che pesano sulla testa, e poi arriva ad essere primo pittore del Re. E di nuovo altre cornici, e orpelli sui vestiti, e minuzia nel descrivere visivamente la trama e i riflessi dell’oro. Sfondi indescrivibilmente isolati e neutri dal resto del mondo, uno di un colore che non avevo mai visto.
Nel frattempo, tra un nobile e l’altro, Goya incontra qualche lume, ci parla più del dovuto, e un tarlo si insinua in lui. Si apre la sala delle tauromachie, e dei tori incornano e sventrano delle persone durante la corrida. Ad ogni stampa corrisponde la sua matrice originale di colore ramato. Che strano questo sangue, questo sguardo sul sangue, in mezzo alle giacche immacolate e ai vestiti alla moda. Cambio sala. Una donna di alta famiglia passeggia spensierata con la sua dama in mezzo alle lavanderine (che lavano i fazzoletti per i poveretti della città). Altri quadri trascurabili con dei pessimi santi e poi, finalmente, un ultimo ritratto, che non ne potevo più. Un uomo lascivo e allunato, che a primissima ispezione riconosceremo come un folle mendicante e, a secondissima, come quei nani di Velazquez, pienamente visibili nella loro marginalità.
Qualcosa inizia a cambiare, tanto che, varcando una porta, mi ritrovo per la prima volta nella storia davanti ad una scena ambientata in un manicomio o, come ha simpaticamente preferito chiamarla Goya, ne “la casa dei matti“. Linee in movimento, luci che penetrano da spiragli, braccia, gambe: uno spazio che finalmente è abitato. Eppure si percepisce qualcosa, fortissimo nella stanza, che in questo tumulto sotterraneo di corpi sudaticci, sguazzanti nelle acque di una umana disperazione, cerca in ogni modo di restare composta. Faccio qualche passo e i cappelli a punta, che nella mia immaginazione erano legati a qualche culto misterico, sono invece i protagonisti di una angosciante scena di Santa Inquisizione Spagnola – agli sgoccioli della sua esistenza, 125.000 vittime stimate – che nella palpabile agitazione degli astanti vengono giudicati rei e, rassegnati al proprio destino, vengono fatti oggetti di scherno.
In effetti, vien da pensare, ogni lotta contro il dominio è una lotta tra chi vuole restare fermo e chi, invece, preferirebbe cambiare. Questa frizione in Goya si sente moltissimo, tanto che, alla lunga, puzza di bruciato. Tagliente, incisivo, l’occhio critico di Goya riesce a individuare le contraddizioni del tessuto sociale in cui vive; che, rammendato e pieno di toppe, è incastrato in una disparità sociale ed economica che sembra invalicabile, dove l’ignoranza è il carburante di chi, a questa disparità, tiene molto. Quella di Goya non è una lotta fisica, il sangue non va sparso, mai – la serie Los disasteres de la guerra lo testimonia. Quella di Goya è una lotta intellettuale, luminaria. Lui, di questo è ben consapevole.
L’esercizio estetico del pittore, ma ancora meglio dell’incisore, è in primis, sempre e comunque, un esercizio etico, non solo per lui, non solo per gli altri, ma per il disperato tentativo di tirare un calcio alla Storia, o anzi, per manifestarla nel suo più vero strato, nudo e senza orpelli, o toppe che siano. Goya è artista al di là dei vestiti che indossa, quelli vacui e trasparenti dell’artista di corte, quelli di un’estetica chiusa in sé stessa e legata alla ricerca del potere. Goya è un artista nell’esercizio coraggioso della propria libertà di individuo e pensatore e nella consapevolezza, o nella speranza, che il ruolo dell’artista debba e possa essere culturalmente rilevante, antidoto all’ignoranza e matrice di cambiamento.
Oggi che gli artisti sono tutti re nudi e si complimentano a vicenda di cappotti invisibili, il suo non accomodarsi in un ruolo precostiuito è un esempio da seguire. Spesso, ad esempio, quello di perdersi nei sogni è un preconcetto rispetto alla pratica di un artista, ma Goya riesce a smentire anche questo. Nella serie di stampe Los Caprichos, dei capolavori, l’incisore si rivela totalmente consapevole nella scelta di utilizzare un immaginario surreale. Le immagini dei somari, dei pipistrelli giganti, dei gufi assatanati, di capre e gobelini, non sono solo il risultato dell’introspezione di un artista tormentato, o di un maniacale occultismo, ma la lucida e acutissima rappresentazione di una Allegoria Storica di qualcuno che, con i piedi nel fango, ha l’attenzione necessaria per cogliere lo spirito del suo tempo. Nel suo caso è quello di un’epoca che sta per aprirsi al futuro, il futuro speranzoso di un’umanità che, in un modo di volare della serie desparates, vediamo librarsi in volo e superare le nuvole (attraverso l’invenzione di un esoscheletro meccanico-animale). Goya, In un’epoca di re e regine grinzosi e stanchi, stava anticipando senza saperlo lo spirito del Modernismo.
La mostra si conclude con un video a doppio schermo realizzato su commissione da qualche impiegato della cultura il quale, alle gigantografie di alcune delle opere appena osservate, ha accostato una musica da Signore degli Anelli, intrattenimento per turisti annoiati che propina una serie infinita di dualismi concettuali come “Luce-Buio”, “Vita-Morte” “Sonno-Veglia”, assurde dicotomie che ardiscono, oltre che a offrirsi come chiave di lettura di tutto Goya, a porsi, tutt’oggi, come valide categorie.
Ma impantanarsi in codici interpretativi stanchi, svuotati e a loro modo irritanti, è un esercizio deleterio sia per interpretare la società di oggi, che non è bianca e nera ma sfumata e grigia, sia per interpretare la società di Goya, che dopo la rivoluzione francese vedeva esattamente abbattersi quella dualità gerarchica fra alto e basso, bello e brutto, giusto e ingiusto, e rischiarare l’orizzonte culturale e politico con una nuova e multiforme energia potenziale. Ecco perché, forse, oggi la vivacissima serie dei disparates, esposta alla conclusione della mostra, rimane ancora di difficile comprensione e perchè Goya, nel senso comune, non sia il lucido intellettuale radicato nel suo tempo che era, ma solamente l’inoffensivo omino visionario che dipinge i mostri che escono dal buio.
Goya, la ribellione della ragione, Palazzo Reale, Milano, fino al 3 marzo 2024