Lui è operaio meccanico, lei cassiera di supermercato. Licenziati, finiscono in un inferno fatto di vita precaria, dura e malpagata. Resi fragili dalla solitudine, s’incontrano una notte a Helsinki, ed è un vero squarcio di luce. Ma quanto resisteranno? Film n.18 del regista finlandese, premiato al Festival di Cannes, è il capitolo conclusivo di una sorta di ideale quadrilogia dedicata ai temi del lavoro. Ma soprattutto un apologo struggente di smagliante libertà e coraggio, che interpella e commuove
Holappa è un operaio meccanico, Ansa fa la cassiera in un supermercato: sono loro i protagonisti di Foglie al vento, diciottesimo lungometraggio di Aki Kaurismäki, Premio della Giuria all’ultimo festival di Cannes. Per motivi diversi, sia Holappa che Ansa vengono licenziati, e di rimbalzo in rimbalzo finiscono in una condizione lavorativa sempre più precaria, faticosa e malpagata, in un vero e proprio girone infernale dove le leggi spietate del capitalismo prendono la forma di una morsa capace di stritolare chiunque. A maggior ragione due individui resi fragili dalla solitudine, dalla stanchezza, dalla disillusione. Due destini che una notte a Helsinki si incrociano, in un imprevisto squarcio di luce, come una radura che d’improvviso si apre e illumina la foresta più oscura. Ma subito sembrano perdersi, incapaci di afferrare quell’occasione di speranza, ancora prima che di amore.
Come i personaggi di Ombre in paradiso, Ariel e La fiammiferaia, i protagonisti di Foglie al vento – che può a buon diritto essere considerato il capitolo conclusivo di un’ideale quadrilogia dedicata al lavoro – sono due antieroi malinconici, anime ferite incapaci di desiderio, chiuse in una prigione di silenzio. Un uomo e una donna che hanno imparato a chiedere poco al mondo e finiscono col ricevere ancora meno, e però non si arrendono: si adattano e resistono, combattono la tristezza cantando al karaoke romantiche canzoni finlandesi (dai testi tristissimi), si cercano, si smarriscono, si rincorrono, di nuovo si perdono e si ritrovano. In un carosello struggente e mesto, in un costante tentativo di mantenersi vivi, tenendo accesa anche solo una piccola luce, mentre ascoltano alla radio le notizie della guerra in Ucraina, con la quotidiana conta dei morti, perlopiù civili.
Proprio la guerra in Ucraina è l’unico elemento che colloca esplicitamente nell’oggi la narrazione di Foglie al vento, che per il resto ci appare immersa in un decor astratto, atemporale, fatto di bistrot che sembrano usciti da un film francese degli anni quaranta, locandine cinematografiche che affastellano e sovrappongono il Godard di Pierrot le fou al Visconti di Rocco e i suoi fratelli, mentre sullo schermo di un cineclub descritto come una sorta di magico rifugio scorrono le immagini stranianti degli zombi tutti da ridere di I morti non muoiono di Jim Jarmusch (che un paio di cinefili all’uscita definiscono un incrocio tra Il diario di un curato di campagna di Robert Bresson e Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, strappando risate a scena aperta).
Un apologo struggente, di smagliante libertà e coraggio, che interpella e commuove. Un inno all’umanità e all’amore sotto forma di commedia tragica e gentile, sotto il segno del minimalismo, di un’essenzialità capace di arrivare al nucleo profondo delle cose. Kaurismäki al suo meglio, in un film dallo stile inconfondibile, capace di raccontare tutta la mestizia di vite ai margini, sprofondate nello squallore eppure capaci di infrangere il guscio nero del disincanto, intravedere un frammento di bellezza, immaginare l’inedita possibilità di una speranza. Magari in compagnia di un cane di nome Chaplin.
Foglie al vento di Aki Kaurismäki, con Alma Pöysti, Jussi Vatanen, Janne Hyytiäinen, Nuppu Koivu, Martti Suosalo