Fino al 30 giugno 2024 è aperta al Mudec di Milano la mostra Short & Sweet di Martin Parr, uno dei fotografi documentaristi britannici più affermati e riconosciuti del nostro tempo. Un progetto espositivo curato direttamente dall’artista con Magnum Photos in cui Martin Parr presenta oltre 60 fotografie da lui appositamente selezionate e presentate insieme al corpus di immagini della serie Common Sense, che lo ha reso famoso, per ripercorrere la carriera di uno dei più famosi fotografi della nostra epoca.
Da almeno settant’anni, il procedimento di andare dal dentista per avere dei perfetti denti simmetrici e bianchi è diventato più complesso e all’intervento effettivo, quello riguardante la bocca, si viene precedentemente sottoposti a un intervento molto più subdolo e pervasivo che riguarda, invece, il cervello. Le sale di attesa, ovvero, vengono riempite di pile di riviste, giornali e magazine dai colori sgargianti, e lo sdentato avventore, assuefatto dalla noia e dai monotoni ticchettii di un orologio di design, è costretto ad aprirli, sfogliarli e venire sottoposto a una tortura psicologica assai ben peggiore di quella che lo aspetta, metallica e ronzante, nell’altra sala. Agli occhi dell’avventore viene esibita, in quelle pagine, l’evidenza di una vita migliore della sua. Sorrisi a 48 denti, occhiali da sole, macchine di lusso, seni perfetti: una vita che si rivela, come in quegli stessi set fotografici che l’hanno partorita, perfettamente illuminata, priva di ombre possibili – o di foto venute storte e sfocate. E la sensazione che pervade il corpo di chi si ritrova al cospetto di queste immagini shocking è l’imbarazzo per riconoscersi inadatto, e inadattabile, a quel modello; consapevole delle proprie imperfezioni, delle proprie leggerissime tasche, delle proprie inevitabili rughe.
Martin Parr, classe 1952, deve avere conosciuto molti di questi studi dentistici, e molti dei loro sdentati frequentatori, tanto da avere carpito, come il migliore antropologo in circolazione, il funzionamento malato di una società malleabile, e malleata, guidata dai gusti aleatori e dai desideri inventati per la necessità del consumo. Cresce sorridente nella Londra invasa dagli arzigogoli colorati delle pubblicità, in cui germinava il primo filone della Pop-Art: si riconosceva la conquista dell’uso dell’immagine da parte dell’industria, che, improvvisamente, invadeva anche la cultura di massa sancendo un nuovo modo di intendere la vita. Parr, come gli artisti Pop, riconosce il codice visivo della pubblicità e, come loro, lo fa suo e lo trasla, lo decontestualizza; ma la sua operazione è più sottile: da abile documentarista, paziente appostatore e geniale nell’intuire l’essenza di un luogo, lascia che sia la stessa società dei consumi, nella manifestazione esuberante della quotidianità, a svelare se stessa, a togliersi quel manto colorato con cui appare. L’occhio di Parr, però – o meglio il suo obiettivo – non è freddo o aggressivo come quello dei suoi antenati, anzi, è caldo, vivace e incredibilmente comico. E’ questo spirito che dota il suo lavoro di una forza pervasiva capace di conquistare il più distratto degli sguardi, il più assuefatto tele-visionatore, che dopo il riso di fronte a una fotografia, semplice e sincero, si ritrova inavvertitamente catapultato nella categoria estetica del perturbante, dove tutto sembra essere fuori posto, e niente al sicuro.
Come ricorda la storica e critica della fotografia Roberta Valtorta nell’intervista a Parr, citando Freud, il motto di spirito riesce a esprimere, in maniera mascherata e quindi accettabile, ciò che altrimenti sarebbe inconcepibile. Anche se Parr, nella conferenza stampa, resta sprofondato immobile nella poltrona, esibente un sorriso magnetico – impossibile non venirne contagiati – ci dice che lui, in realtà non fa niente, e che il suo è l’umorismo insito nella commedia umana. Ci dice anche che ridere è certamente meglio che piangere, quindi meglio ridere. Ancora più calzante allora per Parr è la teoria sul riso di Bergson: ridiamo quando di fronte a un movimento, per contrasto, riconosciamo due ritmi, quello fluido, eracliteo, dell’intuizione della vita, che sfugge a ogni codificazione, e quello meccanizzato, dei costumi sociali che ogni tanto si inceppano, si mostrano, e che – parafraso – ci fanno agire come dei pupazzi, ignari, rinchiusi in un gigantesco paese dei balocchi. Quindi ciò che emerge dagli scatti di Parr, tutt’altro che impietosi, è infine una fragilità umana, quella di chi non sa reggersi in piedi da solo, se non appigliandosi alla struttura rigida del desiderio irrefrenato, della cupidigia, della ingordigia, della smania di apparire, o a quella di un tintinnante deambulatore.
Short & Sweet è una mostra che avrebbe forse meritato una sala più grande e un prezzo d’ingresso popolare, ma che rivela una sensibilità unica, un Martin Parr da incontrare almeno una volta nella vita, almeno nella manifestazione euforica delle sue fotografie.
Martin Parr, Short & Sweet, Mudec, Milano, fino al 30 giugno 2024
In copertina: Martin Parr, USA, Florida, Miami, 1998. Da “Life’s a Beach” © Martin Parr/Magnum Photos