In uno spettacolo molto brechtiano che insegna la fatica della democrazia, il Teatro delle Albe racconta la vita e le opere di Aung San Suu Kyi con la splendida Ermanna Montanari
La forza della dimensione umana che viene rappresentata in questo ultimo lavoro del Teatro delle Albe è incredibile.
Raccontare la vita di una donna che è ormai un simbolo della lotta contro la supremazia della violenza del potere, già Nobel per la pace nel 1991, rischia di essere pericoloso, si potrebbe cadere nella celebrazione di un’eroina negandole la possibilità di avvicinarsi alla gente comune, e scadendo nella banalità di renderla una divinità inarrivabile.
Questo non accade: Marco Martinelli, drammaturgo e insieme regista dello spettacolo, ci propone una versione della combattente Aung San Suu Kyi al contrario, molto umana, riusciamo a sentirla vicino pur ammirandola. Insieme a lei vengono presentate le sue debolezze, i suo affetti privati, il suo essere più intimo in questo modo, invece di apparire portatrice di un idealismo astratto ci si presenta come portavoce di democrazia, libertà, resistenza, degli effetti della violenza di un potere che porta all’imbarbarimento.
Ad aiutarci in questa lettura ci viene incontro Ermanna Montanari, capace – come già in Pantani – di assomigliare al suo personaggio in modo sconcertante: ci sembra di avere davvero davanti la straordinaria donna e i suoi ideali. L’interpretazione della attrice risulta una commistione di sacralità e quotidianità che ci costringe a non staccarle gli occhi di dosso. Non per questo però sfigurano gli altri: Alice Protto, Massimiliano Rassu, Roberto Magnani e Fagio sono bravissimi, pur dovendo destreggiarsi tra personaggi diversi.
A completare l’azione si aggiungono scene e luci; le prime con l’ausilio di proiezioni creano una scena onirica che si presenta allo stesso tempo come luogo di Storia e casa di fantasmi, primo tra tutti il padre ammazzato dal “potere” quando Suu aveva solo due anni; una scena che con pochi cambiamenti ci descrive momenti profondamente diversi, un filo rosso, un telo in questo caso, rimane il palo portante di tutta la narrazione visuale. Le seconde disegnate in modo estremamente preciso ci raccontano ambienti e stati d’animo diversi di quadro in quadro.
La drammaturgia, elegante, dettagliata è infatti divisa in 18 quadri che vengono annunciati tramite scritte sul fondale. Queste ultime ci rimandano allo straniamento con il quale Brecht affronta i suoi personaggi, escamotage questo che viene ripreso in modo impeccabile durante la narrazione del rapporto di Suu con il marito che viene riportato dal coro. Un debito verso l’autore tedesco che si protrae anche sulla scena attraverso l’uso di due microfoni differenti, uno intimo che racconta il filo dei sentimenti e dei pensieri, l’altro istituzionale.
L’opera nell’insieme colpisce per sua armonia, e a tratti si esibisce un’esagerazione grottesca nel rappresentare alcune vicende, come quella dei generali e degli spiriti Nat, ma niente risulta fuori luogo. Tutto questo, insieme alla partitura musicale a tratti “metallica”, alternata a melodie orientali e altre fortemente rock che hanno influenzato la sua formazione occidentale porta grandi emozioni e la possibilità di riflettere su democrazia, giustizia, libertà e politica.
Dice Suu «La politica è sacrificio. É un dovere: ti devi occupare di politica, se no sarà la politica ad occuparsi di te». Nonostante questa storia possa risultare a prima vista lontana dal nostro immaginario Ermanna e Marco mettono in discussione subito questo pensiero fin dalle prime battute dello spettacolo « é distante la Birmania? Eh? È distante?» segno questo che in realtà di elementi in comune con la sua Vita ne possiamo ritrovare anche nelle nostre.
Uno spettacolo che racconta le ombre per esprimere la luce.
Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, di Marco Martinelli, al Teatro dell’Elfo fino al 12 marzo
Foto: Teatro dell’Elfo © Enrico Fedrigoli