Lo storico dell’arte Giovanni Agosti fa il punto, senza sconti, sulle politiche artistiche milanesi
Giovanni Agosti insegna Storia dell’Arte moderna alla Statale di Milano. Ha scritto molti libri, e curato molte mostre, tra cui spicca quella di Mantegna nel 2008 al Louvre. Ha la fama di essere uno dei più grandi eruditi in circolazione, però non pare che stia sempre e solo chiuso nelle biblioteche. Tre anni fa, infatti, appena dopo l’elezione di Giuliano Pisapia a sindaco, ha scritto Le Rovine di Milano, un pamphlet molto critico sulla politica culturale milanese degli ultimi decenni, che non aveva mancato di suscitare polemiche per i suoi affondi che toccavano da vicino l’establishment culturale della città nel suo complesso, dalla Scala al Museo del Novecento, passando per Brera.
A tre anni dall’uscita de Le rovine di Milano (Feltrinelli, 2011) cosa è cambiato in città? Il ritorno della sinistra al potere dopo 20 anni ha modificato la situazione culturale di Milano?
L’inizio della stagione della giunta guidata da Giuliano Pisapia aveva visto come assessore alla cultura Stefano Boeri. In quei frangenti così dinamici, così vitali e pieni di aspettative Jacopo Stoppa e Marco Tanzi ed io abbiamo messo in cantiere la mostra del Bramantino a Milano. È stata un vero tentativo. Mi piacerebbe che le mostre su Bramantino e Luini, che pure abbiamo fatto io e Jacopo con tanti nostri allievi, non finiscano per rappresentare un’eccezione in un contesto dove premono altre esigenze. Alcune aspettative, infatti, purtroppo si sono incrinate nel corso degli anni, se non dei mesi.
Si spera, io continuo a sperare, che certe brutte cose che si sono viste in passato, che certi compromessi in particolare tra istituzioni pubbliche e strutture private nel segno non di un rapporto paritario e adulto, ma di uno sfruttamento del privato nei confronti del pubblico, siano esaurite. Vorrei davvero fosse così.
Quali sono questi compromessi?
Sono quelli per cui si concedono spazi espositivi pubblici a dei privati, a delle società di servizi, che organizzano mostre “preconfezionate”, “a pacchetto”, che rivelano la loro natura strettamente commerciale, del tutto indenne da necessità scientifiche, etiche, politiche, e spesso anche estetiche.
E invece la mostra di Bernardino Luini da poco conclusasi a Palazzo Reale, curata da lei e Jacopo Stoppa, che genere di esigenze poneva?
Dietro Luini, e Bramantino, c’era l’idea che si potessero fare (si possano fare!) mostre di ricerca che nascono in simbiosi al continuo sviluppo degli studi e a stretto contatto con il mondo della ricerca vera. Tutto questo non vuol dire creare delle macchine autoreferenziali, ma piuttosto mostre che si aprano alla collettività proponendo al pubblico una forma di crescita abbinata al piacere della visione. Le due esperienze, pur diverse, almeno per dimensione, avevano proprio questo come filo conduttore: l’idea che lo spettatore non è un cliente ma un cittadino, e che l’amministrazione pubblica, insieme con l’Università pubblica, con il contributo più o meno generoso dei privati, crea qualcosa per fare crescere nel visitatore il senso critico, la conoscenza della storia, il buon gusto, l’autonomia di pensiero.
Si dice, però, che la mostra abbia avuto 30mila visitatori. Ma è possibile a Milano fare mostre serie per cui ci sia anche un enorme flusso di pubblico, come accade in altre grandi città europee?
La sfida di Luini era molto complessa, anche perché è un artista che è difficile far digerire a persone nate e cresciute nel Novecento. Ma mi pare sia da sottolineare come negli ultimi anni l’opinione pubblica abbia cominciato a sentire l’esigenza di mostre del tipo del Luini, smascherando la vera natura delle mostre preconfezionate. Credo sia un dato molto positivo. Uno dei pochi.
Perché, allora, la gente continua ad andare a vedere quel genere di mostre “a pacchetto”? Pare quasi che in Italia si sia imposto più che altrove questo malcostume, che porta un flusso costante di pubblico a esposizioni sempre degli stessi “big”: Monet, Warhol, Klimt, Van Gogh, Chagall…
La gente è bombardata da una pubblicità insistente, volta ad abbassare quanto più possibile il gusto, speculando su quella che è la banalità, la riconoscibilità, l’ovvietà, il consumo di certe immagini. Questo è probabilmente solo un aneddoto, ma il nostro Luini ha avuto forse meno visitatori perché non abbiamo accettato di mettere un seno nudo sulla copertina del catalogo (come ci era stato suggerito) oppure per la scelta del titolo. Se avessimo chiamato la mostra, al posto di Bernardino Luini e i suoi figli, Bernardino Luini tra Leonardo e Raffaello o Luini all’ombra di Leonardo forse sarebbero venute più persone.
La mostra di Luini è stata anche segnata dal gesto dell’ Ambrosiana di ritirare un quadro dall’esposizione perché non concordava con l’attribuzione da lei fatta sul cartellino. Questione di sostanza o, come qualcuno ha pensato, di lana caprina accademica?
Il gesto dell’Ambrosiana e del suo vertice è stato un gesto molto violento. Molte persone ci hanno espresso pubblicamente e privatamente solidarietà, ma purtroppo, tranne qualche eccezione, c’è stato da parte dei quotidiani italiani un non volersi schierare in una polemica che sembrava una diatriba tra studiosi. Non lo era. Era qualcosa di molto più grave, una vera infrazione della libertà di opinione: sono venuti e hanno portato via il quadro. Una divergenza sulle attribuzioni che comporta il ritiro dell’opera: qualcosa che credo non si sia mai visto prima.
A proposito di istituzioni museali milanesi, qual è la situazione attuale di Brera? E cosa pensa del riallestimento del Museo del Duomo?
Per quel che riguarda il Museo del Duomo, io sono tra coloro che trovano ben poco felice il nuovo allestimento. Sono contento che il museo sia riaperto, ma certo la sistemazione odierna è poco riuscita, anche per la ricerca di banale suggestività che la contraddistingue: basti pensare che l’unico edificio sacro che si vede dalle finestre del Museo è il campanile di San Gottardo in Corte e questa è già da sola una notevole bizzarria. A questo si può anche aggiungere che, almeno fino a qualche mese fa, i cartellini delle opere registravano errori vistosissimi: c’erano manufatti esposti con scarti cronologici anche di secoli rispetto al vero. Errori del genere, fortunatamente, a Brera non ci sono.
La storia dell’arte, ne Le Rovine di Milano sembra essere un termometro molto ben calibrato per misurare la temperatura culturale del Paese. Ma può rappresentare anche una forza propulsiva per il rilancio del Paese?
Visto come si articola il patrimonio culturale italiano, sono convinto che la storia dell’arte abbia in sé, se applicata e praticata con onestà intellettuale, tutti gli elementi per rappresentare una forma di concreta autonomia e d’indipendenza di pensiero fondamentale per uscire dalla palude culturale in cui ci troviamo. C’è però da parte delle società di servizi, e, talvolta, – ahimè! – anche da parte delle soprintendenze, da parte insomma dell’industria culturale in senso più lato, la volontà di relegarla in una dimensione ancillare e dopolavoristica, come se fosse soltanto qualcosa con cui si dragano soldi in cambio di grammi di visibilità.
Dopo la scossa de Le rovine di Milano, ci si potrà aspettare un secondo pamphlet in cui si indichino le vie della ricostruzione di questa città “rovinata”?
Mi piacerebbe non dovere essere io a scriverlo. Mi sembra di esercitare quotidianamente, con il mestiere di insegnante, un lavoro di muratore per costruire un edificio diverso, ma ci sono continuamente ruspe che cercano di distruggere il poco che si riesce a erigere con tanta fatica.