Cinque attori giovani ma prontissimi, adulti senza una sbavatura e una sala che abbraccia uno spettacolo che è un’idea di mondo. L’ultima regia di Andrée Ruth Shammah, in scena fino a inizio maggio, è un piccolo capolavoro.
Per raccontare “Chi come me”, in scena al Teatro Franco Parenti fino al 4 maggio, si potrebbe cominciare facilmente scomodando qualche nota – e calzantissima, citazione Basagliana che potrebbe suonare, come il testo di Roy Chen, qualcosa come: “non è la diagnosi che fa la persona, ma la persona che fa la diagnosi” approfittando del centenario. O parlare del coraggio di raccontare – con la retorica ridotta ai minimi termini e parole scelte con cura – gli ospedali psichiatrici, soprattutto quando ad abitarli sono i ragazzi.
La verità è che questo spettacolo fa qualcosa di diverso – di più – di rappresentare il potere curativo del teatro. Qualcosa di meglio di uno spettacolo riuscito. Fa vincere la vita sulla finzione. Non c’è niente di teatrale, nei cinque ragazzi che si risvegliano dentro una sala costruita – letteralmente – intorno a loro. La nuova sala A2A, scavata nelle fondamenta del teatro, è nata per accoglierli, e mentre prende forma con le loro stesse mani azzera la distanza tra chi osserva e chi racconta. Tra il pubblico e Barak, coi suoi scatti d’ira e il suo narcisismo (Samuele Poma), Emmanuel, la sua ansia sociale che lo chiude in uno spazio più stretto dello spettro autistico dentro cui si trova (Federico di Giacomo). E poi Ester, che porta l’esito di una frattura da cui non si guarisce mai (Alia Stegani), e Tamara (Amy Boda) che riesce a risvegliarsi dall’apatia solo quando comprende che la sua vita e la sua identità non corrispondono al corpo che le racchiude. E infine Alma, Chiara Ferrara, i suoi stati maniaco depressivi, e la responsabilità di chi conosce la cura dentro il veleno della ferita. Cinque giovani e giovanissimi attori fatti, che dimostrano di calzare i loro personaggi con una precisione chirurgica e dolcissima, non di rado commuovente, portando in scena non tanto e non solo il disagio psichico, per quanto credibile quasi un pretesto per raccontare un tempo della vita, uno sguardo sul mondo, quello dei ragazzi. Non sono – solo – pazienti psichiatrici, sono “noi ad un’altra frequenza”. Il loro peculiare punto di vista consente soltanto un aumento – a tratti vertiginoso – della temperatura emotiva, dentro cui emergono in purezza dolore, gioia, solitudine, ma, soprattutto, consapevolezza.
Ragazzi che si sfidano e si spiegano, si riconoscono e si provocano, crudeli, goffi e saggi come sono solo gli adolescenti, quando sanno guardarsi davvero e vedersi. Sono, tutti, tragicamente e splendidamente più intelligenti e lucidi dei loro genitori, spersi davanti a un malessere cui non sanno reagire ma di cui sembrano vittime molto più dei loro figli. Come se solo dentro si desse uno spazio di vero sapere, mentre dall’esterno arrivano madri e padri grotteschi e disperanti, più che disperati, incarnazioni multiformi dello stesso disagio a cui danno corpo un poliedrico Pietro Micci, e Sara Bertelà, impeccabile. Tra gli adulti, a loro volta in stato di grazia, c’è però anche chi cammina sul filo tra il dentro e il fuori: il dottor Bauman, Paolo Briguglia, che dentro alle certezze cui il ruolo lo costringe porta la rabbia del medico e la dolcezza del padre che ancora crede davvero a una possibilità di salvezza, con gli unici strumenti che possiede, e lotta contro l’angoscia di avere un potere che potenzialmente può decretare vita e morte. E c’è, soprattutto, la docente di teatro, la signorina Dorit di Elena Lietti, fragile e sciamanica come solo i veri maestri, che il confine tra malattia e sapienza, dolore e cura, scena e vita lo porta sulla pelle, lo riconosce e per questo può accompagnare ad attraversarlo. Se questa – come ha più volte dichiarato – sarà davvero l’ultima regia di Andrée Ruth Shammah, non potrebbe aver chiuso meglio di così. Saggiamente si limita ad evocare coi nomi e poco di più l’ambientazione originale dello spettacolo a Tel Aviv, dove il drammaturgo Roy Chen è drammaturgo stabile del teatro Gesher, tratteggiando le fragilità e le solitudini di ogni innocenza. Cogliendo tutte le possibilità dell’allestimento scenico di Paulina Adamov, dove l’ospedale è disegnato da un quasi bianco che riesce a conservare tutto il calore che quei luoghi dovrebbero provare a non perdere.
Firma, con raffinatezza e una partecipazione emotiva che si sente e si propaga, un congedo che è una dichiarazione d’intenti. Uno sguardo rivolto a un futuro da proteggere ma da cui, molto di più, essere disposti ad imparare.
Capace di raccontare la realtà nei suoi aspetti più feriti ma senza vergognarsi di sperare, di fidarsi delle rinascite possibili e, a prescindere dal tempo che occorrerà e dalla forma che prenderanno, di nuove libertà a venire.
Ne emerge un piccolo miracolo di empatia ed eleganza scenica, dove la pazzia, se c’è, sta fuori, mentre dentro si scova, con assoluta grazia, la cura che passa attraverso la possibilità – che il teatro concede – di portare il vero sé fuori da se stessi. Dandogli, attraverso il diritto a esistere, le parole per raccontarlo, come una lettera spedita a quelle parti del nostro intimo per cui, senza giocare ad essere altro, non ci sarebbe stata una lingua per parlare. Un piccolo capolavoro, di abbacinante sincerità, da cui lasciarsi, senza rete, trasportare.