Un frenetico zapping teatrale con tanto di sabba techno è la scena in cui i registi Moshe Leiser e Patrice Caurier calano i protagonisti dell’opera di Arrigo Boito nella versione vista alla Fenice. Straniante la direzione di Luisotti, che sottolinea una sorta di ostinato grottesco, motore della partitura
C’è qualcosa di irresistibile nelle strade sbagliate degli artisti, quelle che – almeno apparentemente – non hanno séguito, perché troppo ardite, velleitarie, a volte in anticipo altre in ritardo rispetto al gusto o allo spirito del tempo. È anche questo che attrae, anzi di più, che commuove quando si pensa a un venticinquenne, Arrigo Boito, che con il suo Mefistofele si mette in testa di rinnovare da solo il mondo musicale italiano – per giunta con una formazione più letteraria che musicale. Circostanza che paradossalmente lo liberava dai meccanismi tipici delle “solite forme” del melodramma e favoriva la ricerca di soluzioni diverse, più coraggiose, “wagneriane”, come gli si diceva in tono accusatorio.
Che poi di propriamente wagneriano, a pensarci bene, c’è poco o nulla in questa partitura (che Boito rivide e ingentilì nel 1875, dopo la clamorosa caduta scaligera del 1868), se non un atteggiamento di sfida nei confronti della tradizione, di apertura a influenze diverse: addirittura l’irrappresentabile seconda parte del Faust. In effetti non era solo Wagner il nume tutelare dei compositori “irregolari” che nell’Ottocento, più o meno romanticamente, tendevano al diabolico: c’era Meyerbeer, Liszt, e ancora di più Berlioz, per non parlare di un altro geniale “dilettante” come Musorgskij. Tutti alfieri di una “musica filosofica”, spesso liquidata come adatta più all’intelletto che alle orecchie, almeno finché a qualcuno non salta in mente di testarne le doti sul palcoscenico.
A quel punto diventa difficile non accorgersi dell’efficacia che queste “Scene dal Faust” – per dirla con Schumann – continuano a dimostrare a ogni nuova edizione. Aiuta il fatto che i teatri, per programmare Mefistofele, devono crederci davvero, quindi si affidano spesso a grandi registi per rivelare le potenzialità di quest’operona bombastica, incoerente ma, va detto, anche molto divertente: da Ken Russell a Robert Carsen, per fare dei nomi, fino alle edizioni recenti di Simon Stone all’Opera di Roma – purtroppo deludente – e, nei giorni scorsi, di Moshe Leiser e Patrice Caurier alla Fenice (scene dello stesso Leiser illuminate con efficacia da Christophe Forey, fantasiosi costumi di Agostino Cavalca, proiezioni di Etienne Guiol, coreografie di Beate Vollack).
I due registi immaginano l’opera come un frenetico zapping teatrale allestito da Mefistofele, l’annoiato “spirito che nega” in tuta che alterna una doccia al binge watching di CattoTV, finché non decide di rimettersi in gioco inducendo in tentazione il dottor Faust che, ugualmente insoddisfatto, vive circondato dall’arte e dalla bellezza del suo studio. Cosa si fa la domenica? Si va a vedere la partita, ed è sugli spalti dello stadio di Francoforte che avviene l’incontro tra i due. Il patto è suggellato da una pera di eroina, poi di corsa nel giardino insieme a Margherita e Marta, dove resta anche il tempo per un giro sul maiale a dondolo. Nel “sabba romantico” Faust si ritrova in un rave tipo Berghain, mentre un mondo di plastica inizia a oscillargli in testa pericolosamente. Il palco si svuota per la morte di Margherita e subito si ripopola come doppio della sala della Fenice: il “sabba classico” diventa il recital della diva Elena. Nel finale l’anima di Faust si salva e ascende al cielo imbracciando un violoncello.
Tecnica, coerenza e idee guidano una messinscena che non sente il bisogno di mascherare i difetti dell’opera, di migliorarla, di raddrizzarla. Non c’è nemmeno il dubbio di una lotta dei registi con il materiale di Boito, così discontinuo. Per loro è evidentemente un (serissimo) gioco: con il sacro e con la retorica, con la didascalia e con il kitsch, senza alcun timore di spingere con lo humour nero, rievocando fantasmi di oggi e di ieri – persino la proiezione di un incendio che invade la sala… in quel teatro!
Bene e male non sono opzioni ma degli accidenti, perché in fondo questi personaggi non hanno una psicologia precisa né particolari profondità, ma affiorano appena tra detonazioni dell’orchestra e del coro (entrambi magnifici) e coretti stereofonici di cherubini e serafini. In breve, sono maschere, indossate dagli interpreti come meglio non si potrebbe. Innanzitutto dal “cattivo” Alex Esposito, che già in molte occasioni, da Gounod a Offenbach, ha dimostrato il suo spirito demoniaco, fatto di eccessi, ironia corrosiva, esuberante malvagità, ma qui si intravvede anche una sorta di spleen, un distacco più amaro e sottile, fin dal prologo in cui siede scomposto sulla poltrona col telecomando in mano. Anche il Faust di Piero Pretti non potrebbe essere più adatto: un eroe fragile, emotivo, a volte persino confuso, come nel rave dove mostra tutto il suo disorientamento, ma la catarsi finale la porta in scena tutta lui. La sedotta e abbandonata Margherita di Maria Agresta punta più sull’equilibrio e sulla misura che sul sentimentalismo. Anche “L’altra notte in fondo al mare”, picco emotivo dell’opera, assume un tratto straniante molto efficace.
Come straniante è la direzione di Nicola Luisotti, che trova nelle irregolarità della partitura, nelle lontananze, nei pieni e vuoti improvvisi, una sorta di ostinato grottesco, che non è solo un colore, ma un vero e proprio motore di un’interpretazione che rivela le potenzialità di un’opera sconsiderata e visionaria.
Foto di Michele Crosera