Con “La libertà” in scena al Teatro Franco Parenti, lo scrittore di Parma ribadisce le sue forme e le sue urgenze, limpide e necessarie
“La bella che è addormentata,
lalalà, lalalà, lalalà
ha un nome che fa paura
libertà libertà libertà”
Così improvvisava Fabrizio De Andrè, come per sbaglio, dal palco del suo tour del 1991, riscrivendo le parole di un canto firmato da Calabrese e Trovajoli per il film “Nell’anno del Signore”. La sua sempre rivendicata appartenenza anarchica, viene spesso motivata con una frase celebre, che in realtà è apocrifa, ed esce invece da un film biografico: “Essere anarchici, significa darsi delle regole prima che te le diano gli altri”. Perché partire dai film e da De Andrè, per raccontare “La libertà”, di Paolo Nori, prodotto da Teatro Due e andato in scena al Teatro Franco Parenti? Perché con il lavoro del cantautore genovese, pur se mai citato, condivide i fondamenti: la musica, da una parte. e dall’altra le protagoniste, quelle che De Andrè ha chiamato, in un’altra canzone, Signora Libertà e Signorina Anarchia. Le motivazioni sono, sostanzialmente le medesime: una fiducia – tutt’altro che cieca, ma di certo intimamente umanista – nella intima bontà dell’uomo, tale da potersi autogovernare. O, se proprio essere governati è necessario, affidarne il ruolo e la responsabilità a quei maestri e formatori di pensiero che l’hanno consegnato alla pagina scritta, o a un vissuto coerente fino all’autodistruzione. Come Bartolomeo Vanzetti, che prima della sedia elettrica immaginava di poter rinascere per morire, una seconda volta, dopo aver vissuto la stessa vita, contro ogni delitto. O come, Daniil Charms, morto in manicomio a difesa della sapiente surrealtà dei suoi apologhi, e diventato uno dei più amati autori russi della storia?
I soli governanti cui Nori ha concesso autorevolezza, più che autorità, sono gli scrittori russi, senza i quali perderebbe di senso. Gli stessi che, come gli ultimi chiamano a confrontarsi con le nostre ipocrisie davanti ai volti del potere e ai suoi soci vitalizi. C’è maggior libertà nell’anestesia di pretese democrazie che esportano guerra o nei gesti di ribellione individuale a cui ci si è dovuti educare dentro una dittatura patente?
Paolo Nori è la sua voce, prima ancora della sua presenza in scena, che forse perde qualcosa della sua forza appoggiata a un leggio, vien da pensare per proteggere una ritrosia innata dentro alla forma “discorso”, quando in realtà la levità sicura con cui sta in scena avrebbe tranquillamente autorizzato a osare di più. E tuttavia, forse, a “fare” lo spettacolo basta la voce di Nori, a tratti salmodiante e a tratti ribelle alle costrizioni delle interpunzioni e, soprattutto, della lingua recitata. La voce di Nori ha una musica tutta sua. E le note del piano di Alessandro Nidi, che ha voluto dare a questo peculiarissimo ibrido tra teatro, reading e scena una intelaiatura suonata, retta, con lui, da Alessandro Zezza, Andrea Coruzzi e Filippo Nidi sembra quasi rincorrerlo. Non perché sia inefficace, al contrario. La narrazione di Nori sembra star lì a dimostrare che la libertà ha una musica, l’anarchia ha una musica, che scivola da Bakunin a Brodskji governata dalla naturalezza del vissuto e dalla ricerca delle parole migliori per illuminare un pensiero, pescando dalle pagine dopo averle fatte proprie, non per affastellare virgolettate buone per le conversazioni da aperitivo.
Le parole di Nori, così evidentemente pensare per essere dette, diventano qui più ancora che altrove il suo peculiare e apprezzatissimo pastiche di elenchi e di rincorse, di parole d’altri che sono il modo più limpido per dire se stessi. Perché, in fondo, anche l’anarchia (vale per Nori, valeva per De Andrè) è una risposta alle urgenze svelate dalla propria biografia. Tutt’altro che un sintomo di disinteresse e disaffezione alla dimensione della società è, al contrario, una lente per meglio capire il mondo. L’urgenza che l’ora e mezza dello spettacolo di Nori sembra lasciare, più ancora delle mai banali riflessioni sociali, politiche o letterarie è questo: non di storia bisogna occuparsi, ma di biografia. Perché la storia non è che una somma di biografia, e ogni biografia è una rete delle parole con cui parliamo e da cui “siamo parlati” se le scegliamo o da cui accettiamo di essere parlati e piegati e umiliati se lasciamo che sia una qualche forma di potere – economico, e non solo, a farlo al posto nostro.
Paolo Nori aggiunge la forza dello spettacolo dal vivo a quello che lo ha fatto amare e porta – anche al Teatro Parenti, in pieno ponte vacanziero, alla sala piena e al pubblico entusiasta. Quello che fa l’ideale libertario. La trasformazione (potenziale) della società attraverso la lente mai didattica del proprio io. il sacro infinitesimale di ognuno. Che per Paolo Nori è la Parma e la Russia, volti di una stessa appartenenza, in cui risuona, ironico e sfrontato, delle storie che cambiano il mondo. Come Parma che resiste, sola in Italia, ai fascisti, o che quando è costretta ad ospitarne l’emblema, il gerarca Italo Balbo, lo accoglie con uno sberleffo su un muro: “Hai attraversato l’Atlantico, ma non la parma”.
Risata, coraggio e coerenza di sé che reggono lo spettacolo come le esistenze: Le uniche leggi di cui ha bisogno chi è disposto a credere il mondo capace di fare a meno dei poteri, che buoni non possono essere mai. Ma disposto a reagire come chi, sapendo di essere sconfitto, continua a lottare. E a conservare, più che speranza, una fiducia che non conosce tempo: “Aspetterò domani, dopodomani e magari cent’anni ancora finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate utopia.”