Tre interpreti strepitosi (Carell-Ruffalo-Tatum) e un regista che sa valorizzarli (Miller), per un dramma di ambiente sportivo con ambizioni esistenziali
Definire Foxcatcher di Bennett Miller un semplice film sportivo o biografico è riduttivo. E forse fuorviante. Si tratta invece di un curato e profondo saggio sui rapporti umani, in una società (quella americana) dove l’educazione alla competizione e l’ebbrezza della gloria possono rappresentare dei macigni insopportabili nella propria esistenza.
Un film che non lascia indifferenti, pubblico o critica che sia: presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, ha strappato applausi e ha permesso a Miller di vincere l’ambitissimo premio alla regia.
E anche in patria, i riconoscimenti non sono mancati: ben cinque sono state le candidature all’Oscar, da quella alla miglior regia alla miglior sceneggiatura originale e al trucco e acconciatura, e ben due dei protagonisti, Steve Carell e a Mark Ruffalo, hanno gareggiato per le statuette al miglior attore, protagonista e non.
Già autore del pluripremiato Truman Capote – A sangue freddo (2005) e di L’arte di vincere (2011), Miller continua qui il suo interessante percorso nei biopic, narrando questa volta la vera e tragica vicenda che coinvolse i campioni olimpici di lotta libera Mark e Dave Schultz (rispettivamente Channing Tatum e Ruffalo) insieme al milionario John du Pont, proprietario di un team di wrestling (Carell). E il regista si riconferma come uno dei più grandi nel valorizzare i propri interpreti.
La sua galleria di volti, unici nel loro genere, si arricchisce, dopo il Capote di Phillip Seymour Hoffman e il Billy Beane di Brad Pitt, di quello, stravolto dal make-up, di Steve Carell – in uno dei suoi rari ruoli drammatici – che riempie letteralmente lo schermo. Un comico che in passato si è spesso affidato al bozzettismo, e invece stavolta regala una prova di terrificante bellezza interpretando un personaggio folle ma posato, iracondo ma impassibile, spesso muto e dallo sguardo inespressivo.
Una mimesi, la sua, spinta talmente all’eccesso da portare Carell, durante la lavorazione, a non socializzare con nessuno sul set, aspetto che sicuramente ha accentuato il distacco e il clima di tensione, necessari per la miglior rappresentazione della vicenda. Gli scambi con Ruffalo o Tatum sono l’invisibile scintilla che fa improvvisamente esplodere un’irrefrenabile violenza.
I due attori, paragonati allo scatenato collega, non sfigurano certo, curando alla perfezione ogni espressione e dettaglio, e arrivando ad allenarsi per mesi, prima delle riprese, per risultare degli atleti credibili. E anche la poco presente, ma pur sempre mitica, Vanessa Redgrave, contribuisce a rendere ancor più straziante la messa in immagini della complessa rete di rapporti.
Oltre alle prove del cast, in Foxcatcher si segnalano la pittorica fotografia di Wally Pfister, le ipnotiche e incalzanti musiche di Mychael Danna, e soprattutto l’efficacissimo trucco curato da Bill Corso e Dennis Liddiard. Un insieme di apporti professionali al servizio di un racconto i cui strati vengono poco a poco svelati al pubblico dall’occhio volutamente immobile della cinepresa, scelta funzionale a trasmettere la quiete che costantemente nasconde la tempesta.
Un thriller silenzioso, con qualche pausa ma nel complesso in costante crescita, e lungo un arco narrativo piuttosto lungo, che conduce lo spettatore inconsapevole in un profondo abisso di disperazione mentale.
Foxcatcher di Bennett Miller, con Steve Carell, Mark Ruffalo, Channing Tatum, Vanessa Redgrave