L’opera prima del francese Stéphan Castang racconta l’incomprensibile, feroce persecuzione che d’improvviso affligge un grafico pubblicitario. Preso di mira, dopo un’occhiata, dai colleghi, fugge dalla città alla campagna, in una lunga e spaventosa corsa. Un film-metafora lontano dalla realtà, piacevole da vedere, che lascia in fondo allo stomaco un macigno, immobile e impossibile da digerire. Un racconto che parla di rabbia e di paura, sommessamente sovversivo, urticante e intelligente
Vincent fa il grafico in un’agenzia di pubblicità ed è l’uomo più mite del mondo. È il protagonista di Vincent deve morire, opera prima di Stéphan Castang, regista, attore e montatore 51enne francese. Un giorno viene aggredito da un collega. Senza un perché, come per un improvviso moto di rabbia. Sembra un caso strano, inspiegabile, del tutto imprevedibile, ma già il giorno dopo si ripete un episodio quasi identico, con modalità minimamente diverse e se possibile ancora più inquietanti (basta una penna biro per aggredire qualcuno, fargli male, mettergli paura). Perché? La domanda si impone. E la risposta è praticamente impossibile. O comunque del tutto illogica.
Vincent si rende ben presto conto che la sua vita è in pericolo. Non sa perché. Può solo cercare di fuggire, mettersi al riparo, rendersi invisibile. Dalla città alla campagna, in una lunga e spaventosa corsa, Vincent solo una cosa capisce, ma non è certo rassicurante: è l’incrociarsi degli sguardi che scatena la violenza. Come se il vedersi gli uni con gli altri fosse sempre e solo un riconoscersi nemici.