Eleganti dark lady e torbide passioni popolano il secondo, brillante film (dopo “Lady Macbeth”) del talentoso regista inglese William Oldroyd. Ma forse non è solo al “mago del brivido” che sarebbe piaciuta la storia di questa timida e umile vittima di un padre alcolizzato e incattivito, che trova la sua via alla libertà nell’incontro con una piscologa bella, raffinata e disinvolta fino alla provocazione. Un noir affascinante e perturbante, che lascia una sensazione finale di incompiutezza. Con due protagoniste decisamente all’altezza, la star Anne Hathaway e la scoperta Thomasin McKenzie
Thomasin McKenzie, la protagonista di Eileen, dal romanzo omonimo di Ottessa Moshfegh, è davvero una rivelazione. Nei panni della giovane donna che dà il nome al film, conduce un’esistenza mesta e priva del benché minimo slancio vitale. Siamo nella fredda provincia americana degli anni Sessanta, un luogo e un tempo in cui la felicità individuale non sembra esattamente merce a portata di mano. Ma alcune esistenze appaiono di certo più disgraziate di altre. È il caso di Eileen, figlia unica di un padre vedovo, invalido e incattivito, perennemente attaccato alla bottiglia. Impiegata nella locale prigione, Eileen svolge mansioni umili che consentono praticamente a tutti di trattarla dall’alto in basso. La sua patologica timidezza contribuisce a chiudere il cerchio, condannandola a una sorta di prigione senza sbarre che la segue ovunque vada, come una nebbia sottile e velenosa, come il gas di scarico che ammorba l’abitacolo della sua malandata ma indispensabile auto.
Tra desideri di fuga che si esprimono in uno sguardo spesso vacuo, quasi del tutto ottuso, e furiose fantasie erotiche destinate alla più totale frustrazione, Eileen sembra rassegnata alla sua infelicità senza desideri, fino al giorno in cui sul palcoscenico irrompe Rebecca (Anne Hathaway), la nuova psicologa del carcere. Bellissima, raffinata, elegante, disinvolta fino alla provocazione, rappresenta tutto ciò che Eileen non è, né mai potrà essere. Forse. Perché gli ingranaggi del destino si sono messi in movimento, e le conseguenze di gesti anche minimi possono essere deflagranti. E totalmente imprevedibili.
Al suo secondo film dopo il notevole Lady Macbeth, tratto da Lady Macbeth del distretto di Mcensk dello scrittore russo Nikolaj Leskov, ambientato a fine ‘800, il regista britannico William Oldroyd ha deciso di immergersi totalmente negli anni Sessanta, creando grazie anche all’ottimo lavoro della direttrice della fotografia Ari Wegner un’opera che sembra voler richiamare in tutto e per tutto, dai colori sbiaditi alla grana della pellicola, ai caratteri dei titoli di testa e di coda, un film “davvero” di quegli anni.
Forse anche per questo, Eileen è stato da molti definito un thriller hitchcockiano. Ma è un’etichetta che sta molto stretta a questa storia di ossessioni e di sguardi, di eleganti dark lady e torbide passioni. Soprattutto per un motivo: Hitchcock non avrebbe mai inserito in un suo film la deriva sorprendente e bizzarra che da un certo punto in poi si impadronisce di Eileen, trasformando un noir di provincia in un grido di libertà. Un grido roco, insanguinato, straniante. Hitchcock poteva essere sadico e crudele oltre misura, ma la storia di Eileen è a tratti addirittura ripugnante. La sua ferocia ci disturba perché ci spiazza, gioca con le nostre aspettative, deludendole e rilanciandole, e alla fine lasciandoci (un po’) con un pugno di mosche in mano. Proprio in questa finale sensazione di incompiutezza risiede il senso ultimo di un noir affascinante, perturbante, torbidamente seducente.
Eileen, di William Oldroyd, con Thomasin McKenzie, Anne Hathaway, Shea Whigham, Marin Ireland, Owen Teague