Dal diario epistolare più celebre al mondo, scritto da Goethe con prosa sublime e denso di affanni e tormenti che si concludono con uno sparo e un funerale struggente, Jules Massenet ha tratto l’opera in scena alla Scala. La regia di Christof Loy colpisce per naturalezza e sensualità. Mentre la direzione di Alain Altinoglu valorizza l’essenzialità formale e la timbrica sontuosa del compositore francese
Lei è una ragazza come ne esistono nelle favole, nei libri (forse di Goethe), nelle opere (magari di Massenet). É bella, sensibile, docile e rispettosa, dolce obbediente e amorosa come la metà morbida di Rosina. Si lascia reggere, si fa guidar. In una famiglia di altri tempi, un padre vedovo e otto figli, accudisce i sei fratelli piccoli con una dedizione da madre, orgogliosa di esserlo (forse). Nel suo spirito di sacrificio, ha perfino promesso di sposare un uomo che non ama, per mettere al sicuro le finanze di casa. Intanto pulisce, taglia il pane, apparecchia e sparecchia la tavola, serve il vino agli ospiti, molto vino, in un continuo inneggiare a Bacco (i maschi naturalmente).
Lui è un giovane romantico, anzi “il” giovane romantico, introverso e malinconico, cresciuto a libri e sogni, innamorato di lei alla follia, possessivo come sa esserlo un maschietto che stenta a crescere, ossessivo nell’ansia di farsi accettare. Non smette di confessarle il suo amore. “Senza di te non posso vivere”, e non è una metafora. Quando conosce chi la sposerà “al posto suo” perde la testa. Simula amicizia, cerca di essere l’uomo che non è. Se ne va, ma non smette di scriverle lettere di passione. Anche lontano è sempre lì, vicino a lei. Non basta. Un ultimo incontro gli toglie ogni speranza. Le avances della sorella più giovane, innamorata di lui, lo irritano. Dentro di sé, ha deciso che la metafora sarà vera. Finge un nuovo viaggio e per affrontarlo chiede un certo fodero con le pistole. Lei capisce, trema, si oppone. Il marito (che intanto ha sposato) vuole che le cose corrano verso il loro destino: nelle lettere ha rivisto in streaming anche quello che accadeva lontano dagli occhi ma vicino al cuore. Il giovane si spara. L’agonia dura abbastanza per riempire un’opera di un finale struggente, pieno di passione e di acuti ben poggiati sul diaframma. Lei si piega sul corpo morto e si arrende. Anche il futuro (suo, solo il suo) sarà segnato da quell’amore.
In ruvida sintesi da serial tv di Netflix (ci hanno pensato?) questo è Werther di Jules Massenet, opera sublime della “francesità” in musica, anno 1892. Non I dolori del giovane Werther di Wolfgang Goethe, ma quel che il libretto di Édouard Blau, Paul Milliet e Georges Hartmann ha messo in breve dalle centocinquanta pagine del diario epistolare più celebre al mondo, fitto di prosa sublime, di riflessioni, di affanni, di tormenti conclusi con un colpo di pistola e un funerale da calde lacrime. Si sa, i libretti d’opera sono forti semplificazioni di ogni fonte, ma la musica che Massenet ha scritto su quella trama scheletrica rispetto alla parola ricca e travolgente di Goethe, ha una cifra che a sua volta travolge il libretto nel far pulsare l’eterno “dissidio fra l’integrità del cuore e i compromessi sociali” (Claudio Magris).
Il pubblico della Scala ha dovuto aspettare 44 anni per reimmergersi in questo viaggio nei sentimenti che tutti conosciamo e almeno una volta abbiamo vissuto (senza il finale). Dall‘ultima edizione del 1980 diretta dal mago Georges Prêtre, con la regia di Giulio Chazalettes, Alfredo Kraus e Nadine Denize protagonisti da sogno, diverse generazioni hanno saltato il turno di questa esperienza, ma il rimedio vedetelo qua: lo spettacolo in scena alla Scala è uno dei più belli e musicalmente intensi della stagione 2024.
Difficile non innamorarsi un po’ di coloro che fanno vivere i personaggi di questo “Drame lyrique”. Benjamin Bernheim, tenore inesauribile, di respiro e morbidezza che tolgono il fiato (a noi), di espressività sempre “carica” ma senza retorica, non interpreta Werther, è Werther.
Charlotte ha la bionda altezza di Victoria Karkacheva, mezzosoprano di scuola russa che confessa di non aver mai cantato Charlotte, che questo è il suo primo ruolo in francese, e a dizione si sente. Ma la voce ha belle vibrazioni e c’è anche l’attrice, signorile, controllata.
Impeccabili perché di madrelingua (anche se la cosa non basta) Jean Sébastien Bou nella parte di Albert (marito di Charlotte) e Rodolphe Briand in quella di Schmidt (amico di famiglia); non un passo indietro Armando Noguera in quella del Bailli (il borgomastro, padre di Charlotte) ed Eric Martínez-Castignani come Johann (secondo amico). Belli e convincenti perfino il Brühlmann di Pierluigi D’Aloia e la Kätchen di Elisa Verzier, personaggi che suppliscono al loro mutismo avvinghiandosi in lunghi baci che parlano di giovinezza e poi di lontananza.
Con Sophie arriva la grande sorpresa del cast: Francesca Pia Vitale, che esce dall’Accademia della Scala, già pronta a salti importanti, è la sorella di Charlotte vicina all’ideale. Ha personalità, voce generosa, linea di canto ricca di nuances, conosce l’arte delle mezzevoci. Anche senza far nulla, sa dire le cose che contano: nel finale, indossata la pelliccia di Charlotte, in una sola posa racconta Sophie, che ha sempre voluto vivere la vita della sorella maggiore, anche nell’amore senza speranze per Werther.
Nel cast si fa luce un piccolo gioiello: il canto delle sei voci bianche, rifinite divinamente da Bruno Casoni, che il regista Christof Loy, nel suo scrupolo del vero, ha scelto “in scala” (perché sei fratellini, se non gemelli, non solo alti uguale).
Dal podio, Alain Altinoglu fa correre voci e orchestra nella combinazione di forma essenziale e timbrica sontuosa in cui Massenet è maestro. Francese di nascita e armeno di origini, Altinoglu ha la familiarità con il linguaggio e la sensibilità per i colori che nell’orchestra della Scala porteranno lungo le recite a smussare certi spigoli, com’è già avvenuto tra la prima parte (atto primo e secondo) e la seconda (atto terzo e quarto).
Dai registi di cultura tedesca ci si aspetta sempre la vittoria della lettura, anche intellettualistica, sul piacere dell’occhio e sull’umanità dei personaggi. Christof Loy coltiva l’esatto contrario. Ogni gesto ha naturalezza, sensiblerie, significato, concretezza, sensualità. Una carezza, il tocco di una mano, un giro di sguardo raccontano i personaggi fuori dai luoghi comuni. Werther si presenta per la prima volta in scena con i pantaloni rimboccati come un ragazzino, che in fondo è, fino a morire da giovane irrisolto. I vecchi bevono e ridono volgari per rendere ancora più grazia alle sfortune dei giovani.
Nell’unica scena, elementare – una parete d’interni tappezzata di bianco-grigio – si apre solo una doppia porta sulla vita di ogni giorno. Per di lì si accede alla natura, all’estate dell’inizio e all’inverno della fine, all’interno borghese, al salotto silenzioso, alle feste, alle tavole imbandite o da imbandire. Descritto a parole, lo spettacolo sembra cosa da poco, ma in un dramma d’interni come Werther, Loy usa quell’unica apertura per far recitare i personaggi anche quando non cantano, prolungarli, tenerli in scena.
In proscenio spiccano piccoli capolavori di evidenza come il gioco delle lettere che Charlotte si stringe al seno, sparge per terra, lancia al marito provocandolo; e lui, uomo d’affari, si mette d’impegno a leggerle, senza giacca e a maniche rimboccate, per capire bene quel che sa: Charlotte non è mai stata sua e mai lo sarà.
Su quel muro si compiono con gesti vincolati ma spontanei i riti della solitudine. Su quel muro, appunto, Sophie, vestitasi del copriabito di Charlotte, svela la linea femminile che scorre in quest’opera intitolata al maschile: la segreta malinconia di una ragazza destinata a vivere nell’ombra della sorella. (Mai sperimentato niente di simile, vero?). Tutto questo si chiama regia.
Foto Brescia e Amisano ©Teatro alla Scala