Può un minuscolo segno far saltare l’ordine perseguito per una vita intera, a suon di catalogazioni e collezionismi? E se questo accade nel cuore della propria casa, sulla soglia, quanto sovvertimento si trascina dietro l’improvviso mistero, lo scoprire che (per quanto maniacali, o accorti) neppure nel mondo da sé costruito ci si può difendere dal mistero, dall’irrazionale, dall’insondabile? Michele Mari sfodera la sua lingua più scintillante per ingaggiare una tenzone con il destino.
Non è facile riuscire a trovare un appiglio che consenta di introdurre in maniera chiara un romanzo che sembra osteggiare qualsiasi genere di logica sintesi. E non certo perché Michele Mari sia uno scrittore vago o inesatto – tutt’altro. Il suo ultimo libro, Locus desperatus, recentemente uscito nei Supercoralli Einaudi e finalista nell’edizione di quest’anno del Premio Campiello, restituisce proprio ciò che il titolo promette: una storia fosca, in cui, muovendosi a tentoni, si ricerca una confusa speranza di salvezza.
Forse più che provare a districare le trame della storia, azzardando un riassunto il più possibile coerente, si potrebbe tentare un’altra via, partendo dalla figura che più di tutte condensa il senso del libro: la croce. La vicenda scaturisce infatti da una circostanza tanto inquietante quanto assurda: un giorno, dopo essere uscito di casa, il narratore-protagonista della storia nota una croce disegnata col gesso sopra lo spioncino della propria porta. Anche dopo averla prontamente cancellata, il giorno successivo il segno ricompare inesorabile, originando il primo di una serie di interrogativi in cui il lettore si immerge fino all’asfissia. In aggiunta, un altro elemento che dà ulteriore significatività all’episodio è il rapporto morboso che il protagonista ha sviluppato con la propria casa e, in particolare, con gli oggetti e le collezioni che la costituiscono. Non è un caso, infatti, che l’incipit dell’opera sia un elenco molto dettagliato di oggetti particolari, che vengono contemplati come se fossero tanti feticci. Tavole originali di vari fumetti, artefatti antichi, importanti prime edizioni, targhette, vasi e molto altro sono il frutto di anni di un collezionismo intenso e sfrenato che ha portato alla realizzazione di una casa-tempio, ora minacciata dal mistero di una croce premonitrice di catastrofi.
Ridotto così, ero re: delle mie cose, delle mie collezioni, dunque di me, che in quelle collezioni avevo sistematicamente trasferito ogni mia più intima particola, fino a ricomporvi un’analitica e dissociata entelechia.
La scelta delle parole attraverso cui il personaggio dà voce ai suoi pensieri permette anche di notare alcune sue evidenti caratteristiche. L’io protagonista, dietro cui l’autore si diverte a nascondersi, è un uomo immensamente colto e allo stesso tempo estremamente paranoico. Il linguaggio del libro esprime perfettamente questi due aspetti: le parole sono la chiara manifestazione di un’esattezza terminologica volta alla comprensione (sempre mancata) di tutto ciò che accade. Trascinando il lettore dentro la sua testa, Mari lo getta in un vortice di angosce e ossessioni che costellano la sua giornata e che pagina dopo pagina si imparano a conoscere. La porta non può essere banalmente chiusa a chiave; anche un momento così semplice e quotidiano deve rientrare nella logica di un rito ossessivo: inserimento, quattro mandate a destra, una indietro, un’altra a destra, tre spinte e disinserimento. La dinamica della narrazione si gioca proprio su questa chimica: gettare un dotto paranoico in un mistero dalle tinte soprannaturali. Ma il soprannaturale e il trascendente, per definizione non possono essere ricondotti a una sola ragione plausibile; così, la paranoia porta alla considerazione di tutte le possibilità, creando nessi e connessioni, che per quanto improbabili si accavallano, risultando tutte paradossalmente plausibili. La croce, ad esempio, è un simbolo comune che chiunque potrebbe ricondurre a un marchio, che porta con sé anche significati religiosi. Tuttavia pochissimi, forse nessuno, vedrebbero nel segno un carattere adottato dai copisti medievali per indicare una parte di testo non emendabile o una lacuna non ricostruibile. Il simbolo, conservato anche dai filologi moderni, prese il nome di crux desperationis; giunti dunque a questa consapevolezza, nel protagonista seguono una serie di inquietanti deduzioni:
Quindi… quindi… quindi! Poteva darsi che… sì… che la croce sulla mia porta volesse segnalare me, la mia abitazione, le mie cose, come locus desperatus: ma proprio per questo – in quanto incurabile – non sostituibile, perché qualsiasi sostituzione come nella prassi disinvolta di filologi fantasiosi, avrebbe ulteriormente peggiorato le cose.
La rivelazione però non porta con sé il sollievo della comprensione risolutiva. Come si sarà già intuito in questo libro la verità altro non è che uno dei tanti spettri, o meglio «ultracorpi», che popolano la dimora e la mente del protagonista: ineffabile, surreale e multiforme. Così, il simbolo filologico non sostituisce, ma si somma al simbolo religioso, creando un altro piano di lettura, quello della dimenticanza, che si accosta parallelamente al precedente.
Infine, non deve sorprendere che pure in una trama fondata sull’inquietudine e l’affanno Mari riesca a ritagliare numerosi momenti di umorismo, spesso dovuto a conversazioni o pensieri che rasentano la follia. Proprio il primo dialogo, in cui il lettore si imbatte nelle pagine iniziali, consente di intuire come l’autore riesca a costruire quella comicità dai tratti schizofrenici:
«Vogliate scusarmi», disse l’ometto.
«Sí?»
«Mi presento: sono colui».
«Colui chi?»
«Colui il quale».
«Colui il quale quidam quibusdam quollo quollo quo quo», perché nel dubbio non bisognava scoprirsi. E infatti incominciò a scoprirsi quell’altro.
«Mi potete chiamare Asfragisto».
«Asfra…»
«Perlappunto vi stavo dicendo che sono colui».
«Il quale…»
«… ha cercato di avvertirvi: indarno».
Asfragisto, Procopio, Sileno… sono alcuni dei personaggi che popolano le pagine del libro: nomi che sembrano provenire direttamente dalla tradizione mitica greca, e che ora diventano le pedine di un gioco di cui non si conoscono le regole. Anche loro sono parte del vortice, insieme alle tante figure nascoste di cui conosciamo solo l’iniziale: S***, F***, A***… mascherati dagli asterischi che ne dissolvono la consistenza. Ma anche gli oggetti stessi accumulati nel tempo sono da considerarsi veri e propri personaggi in grado di provare sentimenti e dialogare col proprio possessore. Tutti loro sono angoli, crocicchi e varchi della «casa-labirinto» costruita dall’autore: un luogo senza speranza, in cui nulla è ciò che sembra, essendo tutto terribilmente possibile.