Simona Pavoni interpreta e rimodula gli spazi, i volumi, i percorsi di EMM – Ex Maglierie Mirella – con una serie di opere realizzate in vetro, carta, pelo animale, trasformando lo spazio in un viaggio tra soglie, assenze e evocazioni.
A colpirmi è la delicatezza delle cose, la loro fragilità e precarietà. A colpirmi è il vento, che muove e muovendo modifica le cose, e la concessione delle cose a farsi modificare a loro volta. A colpirmi è l’equilibrio precario che ci indica che tutto può scomporsi da un momento all’altro: un attimo prima è tutto d’un pezzo, un attimo dopo è tutto in mille pezzi.
Eppure, quello che mi colpisce di più è come questi pezzi possono essere ricomposti, a creare qualcosa che è “la” cosa, quella che doveva essere sin dall’inizio: pezzi riuniti e non un unico pezzo. Dovremmo accettare che tutto può ridursi in mille pezzi e accettare che questi possono riacquistare la loro essenza essendoci in modo nuovo: recuperato, reinventato. La soglia tra la caduta che spezza e l’invenzione della caduta è labile. Tutto ciò è possibile perché a ricomporre come a reinventare ci si mette tempo, lungo tempo e fatica e ossessione ed è possibile che questo processo generi qualcosa che è di fatto meglio di prima. Ecco in cosa consiste lo sforzo del tempo: nel prenderselo tutto, per ridare ancora. Quando restituisci qualcosa, lo conduci nello spazio risignificandolo, aggiungendo ai suoi connotati nuovi connotati.
Si tratta di processi diuturni, e di dettagli incontrollati nella loro maniacalità: ossimori necessari alla realizzazione.
Questo è il visibile di “buone maniere”: la delicatezza della rottura, la capacità di ridare significato alle cose, senza toglierne il senso principale. Tende di carta, che sembrano parte integrante dello spazio, sono opere che, proprio per questa falsa prima impressione, lo calzano perfettamente e allo stesso tempo lo ridefiniscono, consegnando nuovi passaggi all’accessibile e all’inaccessibile; i fori di cui sono composte – anche quelli rappresentanti primi della maniacalità – determinano il passaggio della luce, trasformando la luminosità dell’ambiente circostante. È in questi nuovi spazi che si inseriscono oggetti all’apparenza comuni – borse, pantofole, centrini – che, esattamente come le tende, sembrano essere parte di quello spazio da sempre, e proprio grazie a questo diventano narratori di storie incastonate nella frangibilità del vetro. Tutto sembra cristallizzato, fermo a un tempo più o meno lontano, e ti cristallizza e si lascia osservare.
Poi, c’è l’invisibile di “buone maniere”, che corrisponde con quello che è potuto accadere nel tempo in cui i pezzi venivano recuperati e reinventati. Il taglio sottile che può procurare la carta. Lo squarcio sulla pelle che può provocare il vetro. Sentire la spazzola che pettina il manto del cane di cui è composta l’opera nelle vetrine d’ingresso (“branco” e sentire anche l’ululato). Udire il propagarsi di buone maniere, buone maniere, buone maniere: gli echi contenuti in questi oggetti, le possibili cadute e rotture. Lo scorrere del tempo dell’osservazione passa anche attraverso il dolore e in qualche modo diventiamo parte del processo, aiutiamo a rimettere insieme ciò che è stato rotto.
Credo che la compartecipazione sia la chiave per leggere la mostra di Simona Pavoni, perché tra il visibile e l’invisibile si istaura un rapporto di sorellanza, una indivisibilità, una cura reciproca che rimane incollata addosso per giorni, e noi non smettiamo di essere colpiti dalla delicatezza delle cose, dal fatto che le cose si possano ridurre in mille pezzi, ma che alla fine prendendoci tutto il tempo, possiamo reinventarle.
Simona Pavoni, Buone maniere, EMM / Ex Maglierie Mirella, fino all’11 luglio 2024
In copertina: Simona Pavoni, Il branco, pelo di cane, 172 x 222 cm, 2024 (dettaglio)