Donya scrive i messaggi nei biscotti della fortuna. Capirà un po’ di più la vita?

In Cinema

Il regista anglo-iraniano Babak Jalali offre un film pieno di grazia. Un’opera dal sapore agrodolce che descrive un’America malinconica, a tratti bizzarra ma capace ancora di essere un luogo di incontri, cambiamenti e scoperte. In cui Donya, giovane afghana rifugiata in California, sfugge i confini angusti della sua comunità lavorando in un’industria dolciaria. E trovando lì anche il modo di riprendere parola

Che cosa spinge Donya, una giovane afghana rifugiata in California, protagonista di Fremont di Babak Jalali, a lavorare in una piccola azienda cinese che produce i biscotti della fortuna per i ristoranti della zona? Il puro e semplice desiderio di non passare tutto il tempo, tutti i giorni, dentro i confini angusti della propria comunità, un gruppo di immigrati variamente infelici e sradicati, alla ricerca di una nuova identità in un paese che li ha accolti, sì, ma non esattamente a braccia aperte. L’infelicità di Donya prende le sembianze di un’ostinata insonnia, che notte dopo notte la mette di fronte ai suoi fantasmi, ai rimpianti, ai sensi di colpa. A Kabul lavorava come interprete per l’esercito americano e all’arrivo dei talebani non ha avuto altra scelta che fuggire. Una scelta drammatica, che lei non è ancora riuscita del tutto a metabolizzare, resa ancora più pesante dalla consapevolezza di aver lasciato indietro la propria famiglia, ancora in pericolo, esposta a possibili vendette.

Ma di tutto ciò Donya non ha alcuna voglia di parlare, e allo psicoterapeuta che vorrebbe aiutarla a ritrovare una voce, a dare una forma ai pensieri e alle paure, chiede una sola e unica cosa: una scatola di sonniferi. Vuole dormire e basta, Donya. E di giorno lavorare, lasciarsi vivere, galleggiare, forse sognare, di certo non parlare. Casomai, ascoltare: le sconclusionate confidenze di amorosi tentativi e fallimenti di una compagna di lavoro o i racconti morali di uno psicoterapeuta innamorato di Zanna Bianca. Finché un giorno ritrova la parola proprio attraverso i messaggi augurali contenuti nei biscotti della fortuna. Il proprietario della fabbrica chiede proprio a lei di scriverli e per lei diventano una sorta di messaggio dentro la bottiglia, da lanciare tra le onde del mondo. Qualcuno risponderà, forse, prima o poi. Qualcosa cambierà. Forse. Prima o poi.  

Viene in mente la quiete surreale in cui sono immersi i personaggi dei film di Aki Kaurismaki, ma anche Jim Jarmusch e la sua idea di cinema malinconicamente esistenzialista. Due modelli che Babak Jalali, iraniano cresciuto a Londra (che ha scritto la sceneggiatura insieme all’italiana Carolina Cavalli) ha probabilmente avuto ben presente nel comporre questo piccolo film pieno di grazia. Un’opera dal sapore agrodolce, che indaga la vita e le sue pieghe senza nemmeno illudersi di offrire risposte univoche e ancor meno risolutive. Babak Jalali, alla sua quarta regia, sceglie di dirigere con mano lieve, procedendo per sottrazione e descrivendo un’America malinconica, a tratti bizzarra ma ancora capace di essere un luogo di incontri, scambi, cambiamenti e scoperte. Perché poi alla fine – questo sembra dirci Fremont – la realtà tende a volte a somigliare un po’ alla filosofia che sottende i messaggi contenuti nei biscotti, che non devono mai essere troppo propizi ma nemmeno nefasti, né troppo originali, né troppo banali.

Fremont, di Babak Jalali, con Anaita Wali Zada, Gregg Turkington, Jeremy Allen White, Hilda Schmellin

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