Sarfatti, il potere di una donna per cancellare l’ineleganza

In Teatro

Una toccante Claudia Coli, al Parenti fino al 14 luglio restituisce le sfaccettature di Margherita Sarfatti, l’animo d’artista e le contraddizioni di una intellettuale lucidissima e donna dolente, molto oltre l’amore con Mussolini, che (come gli artisti di inizio secolo, le doveva tutto.

“Ciò che cambia la storia è creatura di donna, del suo genio e del suo dolore. Non si può che partire da qui per comprendere Margherita Sarfatti. A lei, al Teatro Franco Parenti, tra le proposte più interessanti di una ricca e vitale stagione estiva, offre i tratti e la voce Claudia Coli, in un affascinante monologo che ne rilegge la vicenda, complessa e sofferta, consegnandole finalmente il diritto alla rivendicazione, e alla prima persona. Che la libera della narrazione appiattita che la vuole amante fervida e devota di un Mussolini ancora socialista, a partire da un decennio prima che diventasse il Duce, prima dell’idolatria che ha significativamente contribuito a plasmare. Margherita Sarfatti è stata, in realtà, molto di più.

Lo dovrebbe ben sapere il mondo dell’arte, che a lei deve un un gusto visionario e un appassionato mecenatismo che ha tenuto a battesimo, non di rado consentendo garantendone la sopravvivenza non solo professionale, tutta la grande arte dell’alba del secolo, che poi dalle spire del fascismo si troverà con alterne fortune in gran parte chiamata a confrontarsi. Da Boccioni a Medardo Rosso, da Sironi a Balla. Nessuno poteva fare a meno dell’ascendente di Sarfatti: non soprattutto chi, come Marinetti, era costretto a far buon viso pur detestandola, costretto a sottomettere il proprio debordante ego al sapere di una donna senza nessuna paura di trarre, dalla sua intelligenza, uno strumento di potere. Sufficiente a stringersi intorno un salotto artistico e intellettuale il cui peso è dato dal nome che, senza falsa modestia, lei gli aveva attribuito, il segno dell’epoca che intendeva, insieme a loro, indirizzare: Novecento.

“Sarfatti”, firmato da Angela Demattè, è un flusso di coscienza teso e a tratti di grande levatura letteraria, che puntella, agli occhi di chi l’ha banalizzata quando non del tutto dimenticata, il valore intellettuale di una donna che, nella sua fine capacità di lettura del linguaggio della comunicazione fu – più che giornalista – antesignana di tutti gli spin doctor che attenti consiglieri a cui si deve l’immaginario delle grandi figure. Ma come si tiene, allora, una donna di mente così viva, insieme con l’amante delle biografie monumentali e delle dichiarazioni roboanti?

Perchè dietro – e dentro, soprattutto – alla Sarfatti intellettuale, c’è la Margherita donna, per cui l’ineleganza è il peggiore e più imperdonabile dei peccati, e la capacità di nasconderla la misura su cui regola il mondo. Per la bambina che guardando suo padre vedeva, pur non senza tenerezza, un patetico ebreo veneziano votato al sogno borghese, quale occasione migliore, per di plasmare, come proprio capolavoro artistico un maestro di scuola dalla giacca sdrucita che usa Dante soltanto per fare battute sciocche nell’eroe del mondo futuro?

È al contempo in prigione e in ostensione, la donna che la regia di Andrea Chiodi imprigiona nel cubo di vetro della ricostruzione dello studio del futuro duce all’esposizione universale. La celebrazione da cui lui – già portato altrove dal potere acquisito – la terrà lontana a cui lei si presenterà ugualmente, come a gridare il proprio ruolo e sancendo, nel frattempo, una sconfitta e una solitudine irrimediabile. A Claudia Coli tocca quindi l’arduo compito di rivestire un testo elegante con una intensità che riesce a esplodere di rabbia e disperazione senza sembrare meno sincera. La Sarfatti di Coli è orgogliosa e passionale, fieramente artefice del proprio destino. E riesce – anche grazie a una valente prova d’attrice, a svelare ciò che del personaggio storico spesso si dimentica. La fragilità di una donna per cui il potere è, prima di tutto compensazione.

Margherita Sarfatti vuole emergere, cancellare l’insopportabile mediocrità che evidentemente si sente scritta nel destino, con la forza della sua mente. Vuole spazzare via il fantasma onnipresente di Anna Kuliscioff, regina dei salotti e della stima degli intellettuali di inizio secolo e il suo accento russo tutto – sostiene – di maniera. Vuole riscrivere la propria storia, e che sia quel che deve essere se – o finchè – lo strumento che il suo tempo le concede per farlo è un uomo a cui è lei a dover infondere il coraggio di mettersi alla testa dei suoi arditi senza aspettare, pavido e con la voglia di scappare, il telegramma del re che consegna al capo dei giovani in marcia su Roma il diritto a governare senza la paura di sparare. Eppure, anche questo, non basta. Sarfatti, di Mussolini, non si limita semplicemente a servirsi. Gli si vota, ma lo fa – almeno, vien da pensare che lei lo direbbe grossomodo così – come farebbe una donna.

Col cuore di una madre che ha visto, letteralmente, trasferirsi nella sua l’anima di un figlio, Roberto, morto ragazzo perché infiammato dall’ideale che lei e il suo Benito avevano alimentato. Il vissuto – e il vuoto personale, si fanno una cosa sola con la voce collettiva. Lo sguardo di Roberto è negli occhi di tutti i giovani che né lei né lui possono più tradire, e non importa se lui tornerà alla sua parodia di famiglia perfetta come non conta che lei, ebrea, diventi da essenziale alla vita stessa dell’amante a simbolo della razza inferiore nel volgere di una manciata di anni.

Componenti che danno vita a un racconto suggestivo e di grande potenza, che indaga, senza banalizzarlo, la complessità dell’animo umano e il filo sottile che separa dall’abisso del dolore e della crudeltà, da cui neppure l’intelligenza protegge.. E riporta viva la memoria di una donna che, malgrado tutto, merita di essere ancora approfondita. Le suggestioni anche sonore, dentro cui fanno eco persino Mastroianni e Anita Ekberg, in quel confine tra sogno e drammatica veglia, evocazione e immaginazione che Fellini ha raccontato meglio di tutti, sono lì a dimostrare, mentre lo squillo grottesco di “Giovinezza” si distorce e si allontana, che forse cambiano le parole e la lingua della retorica dell’ideale, ma lo spirito del tempo dista da cento anni fa molto meno di quanto indicherebbe il calendario.

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