Louise, la rugosa

In Arte

Due imperdibili mostre di un genio del Novecento che fu anche ponte con il nuovo millennio. Louise Bourgeois, a Museo Novecento di Firenze e a Galleria Borghese a Roma. Aronne Pleuteri ci si è immerso e le ha attraversate, riportando il diario di un’esperienza prima esistenziale che artistica.

Due grosse palle lignee posate al suolo antecedono una scricchiolante vecchia scalinata che si erge verso l’alto ma che dopo qualche gradino si interrompe a metà. Tutto intorno un poligono di pannelli celesti dipinti nella più scanzonata delle maniere avvolge come un cielo questa “cazzo” di scultura. NO EXIT, di Louise Bourgeois, è l’opera più involontariamente assurda mai creata, e anche se vorremmo ma non possiamo percorrerla – o forse proprio per questo cogito interrotto – lascia in sospeso una serie infinita di interrogativi. In primis sull’origine psichica di un’immagine così ambigua e inedita all’esperienza dell’abituale, e poi, su che cosa diamine sia quell’aura che come uno spettro avvolge la sala e che trasuda così evidentemente da quel legno consumato.

Villa Medici, Louise Bourgeois, Installation view, The last climb. Photo A.Osio

Una scalinata per il paradiso, direbbero altri vecchi, disabitata e fantasma, basata su un preciso senso dell’assenza… come se chi scendeva quelle scale, nudo ed esagitato, fosse passato di lì anni fa, parecchi anni fa, lasciandosi alle spalle la propria Parigi cubista in direzione degli degli Stati Uniti e delle sue terre vergini… e come se vergini quelle terre poi non lo sarebbero state, ma al contrario sublimate in un gigantesco deposito involontario di sculture pronte all’uso, non di ready made senza funzione, ma di objet trouvé, oggetti impregnati di storia e di tensione emotiva… E Poi, come se dietro quelle due palle stabili e mute – sembrano i leoni stilofori, protettori e simbolo di forza, messi all’ingresso del giardino De Medici – ci fosse l’occhio vigile di un burbero contadino rumeno con una imprescindibile volontà di ridurre alla forma prima; e ancora, come se girando attorno a quel poligono celeste ci trovassimo immersi in una galleria Newyorkese del dopoguerra, riempita dei rifiuti della società dei consumi dipinti con ampie pennellate di vernici colorate come il rimasuglio della stagione pittorica precedente. Osservare la Bourgeois è una visione lampante di fantasmi, non fievoli e lontani ma aptici e vivissimi, e tutti loro portano con sé una tensione irrisolta, che solo per qualche attimo rimane imbrigliata nell’opera perchè, poi, assale lo spettatore… E certo, ci sono i fantasmi della Storia, dei nomi riconoscibili ai più che anche da morti lottano per venire ricordati, ma poi ci sono anche quelli più potenti, quelli individuali e legati al biografico, che con ogni ostinazione cerchiamo di tenere reclusi in soffitta (inaccessibile perchè qualcuno ha esportato le scale), ma che se avessimo la sincerità creativa della signora Bourgeois, terremmo in delle “Cells” trasparenti ed esposte al pubblico.

Galleria Borghese, Louise Bourgeois, Installation view, detail, Passage dangereux. Photo A.Osio


Quella del 1997 a Villa Borghese intitolata “passage dangereux” si articola in un architettura distorta e impraticabile di sale e piccoli passaggi che vengono popolati da oggetti surreali , ibridi e mostruosi . Ci sono sedie volanti, piedi oscuri infilati su manici di scopa, distillatori teriomorfi, palle di vetro, tutti ricoperti da quella patina del tempo che ascrive questi oggetti al regime enigmatico della memoria prima ancora che al territorio limpido e organizzato dell’arte. Non riesco più a capire se questa patina temporale è fisica, di polvere e ragnatele, o mentale, l’aura densa e potente di un gesto catartico che riesce a condensare il tempo in materia. Sembra che quei pochi metri di spazio inospitale corrispondano invece alla griglia del tempo in cui scorre (si incastra) la vita. E quegli oggetti sembrano il risultato dell’accumulazione di energia vitale in grumi di significato, come i sassi di calcare che si sedimentano, indizi naturali del mistero del Sé, organi preposti al cortocircuito che guidano e insieme tormentano l’esistenza. Un grande bulino della Storia scava le nostre rughe: interpretiamo il mondo attraverso quegli stessi simboli che l’esperienza ha segnato su di noi. Che quella “nessuna uscita” di una scala non finita, come quella tautologica delle gabbie, sia precisamente dall’impronta invalicabile del passato? E soprattutto… A quale diamine di edificio la signora avrà estirpato quella famosa scalinata impedendo ai condomini l’accesso ai piani superiori?

La storia del novecento è la storia dei suoi paradigmi, o meglio, quella dei suoi costanti superamenti, e quella di uno spirito moderno che anche sotto la maschera del suo “post” non si affievolisce mai, anche quando alla pretesa di un radicalmente nuovo negli anni 70 si sostituisce il cugino storto e zoppo del nuovamente radicale. Eppure la bourgeois, che lo percorre tutto questo secolo e che ha una vastissima cultura fatta di conoscenze vis a vis, che la ergerebbe allo statuto di biblioteca con le gambe, e che è sposata con un importante Storico dell’arte, nonostante tutto, non si schiera dalla parte della citazione, dell’autosufficienza linguistica di quella disciplina fredda e staccata dal sé e dal mondo ma, al contrario, si schiera da quella parte di storia dell’arte che ne è invero il suo eterno motore irrazionale e che, in qualche modo, dell’ “arte” e del suo portato potrebbe anche farne a meno. Il bagaglio culturale della Bourgeois, con l’impeto di qualcuno che sta cercando disperatamente qualcosa, viene aperto, svuotato, le stoffe all’interno sbrindellate, tagliate, e ricucite insieme in una forma solo apparentemente inedita, e che invece è ancestrale e precede ogni storia. E’ quel substrato comune torbido e persistente che ci si ritrova davanti a furia di scavare nella memoria con le proprie mani avvizzite, ma il cui confronto, come lo sguardo di Medusa, è sostenibile solo attraverso lo specchio di una immagine. In questo senso in Bourgeois l’arte è uno strumento conoscitivo, e l’oggetto della conoscenza un dolore originario recondito e segreto.

Museo Novecento, Louise Bourgeois, MAMAN, 2009. Photo Christopher Burke

Al museo del novecento di Firenze, “the waiting hours”, un orologio realizzato dalla cucitura di vecchi panni legati ai ricordi della madre tessitrice, apre la dimensione di un tempo profumato e sospeso (ci sono anche delle rose) abitato dalle moltissime gouache dell’artista. Il colore fluidissimo e liquefatto si espande naturalmente generando incontrollabili forme di corpi femminili che, prima di essere cosce, seni e scrupolosissimi capezzoli, sono anse, colline e grandi vallate. O ancora, fiori e piante come alveoli polmonari. Il rosso con cui ossessivamente la Bourgeois disegna questi corpi uccidono ogni altra possibilità interpretativa: siamo in una dimensione uterina del mondo, in una unità tra madre io e te, tra uno e due, in un tempo che esiste prima del tempo. Poi, tra cavità materne, spelonche platoniche, tette, e tutta una serie di nomi con cui abbiamo cercato di definire uno stadio della vita inconoscibile razionalmente, appare uno sgorbio, un marmocchio, una creatura informe e appassita. Quello sgorbio spaventato, con i capelli rizzati in aria, è un figlio. Il figlio di una madre. Questo figlio vive ed esiste grazie alle cure della madre, ai suoi ricchi e fecondi seni, a questi giganteschi cordoni ombelicali, tubi dove scorre il nutrimento, e deve tutto a Lei. Ma Lei, ogni storia ci insegna, non è solo dolce e protettrice, è anche dettatrice di legge e potenzialmente omicida. Nei disegni la presenza della madre è ingombrante, angosciosa, sembra schiacciare la presenza di un altro piccolo da sé. Già dalla nascita questo deve essere chiaro. Veniamo sparati nel mondo come un rifiuto corporeo attraverso un atto violento di recisione e quella condizione uterina unica e totalizzante ci viene improvvisamente negata. Già alla nascita dobbiamo processare il lutto di una dolorosa perdita. Quale profonda ingiustizia! Quale smanioso crimine!

Museo Novecento, Installation view di “Louise Bourgeois, Do Not Abandon Me”.
© photo Ela Bialkowska OKNO studio

Un gigantesco ragno nel cortile, due compenetrati in uno a dire il vero, mi rende questo pensiero più chiaro. Il ragno è lei, la madre tessitrice, e forse l’altro ragno è l’altra lei, la Bourgeois. Assieme si intrappolano e si proteggono l’un l’altra. Riesco a infilare lo sguardo fra le trame di queste lunghissime gambe aracnoidee e anche io mi sento un po’ in una capanna e un po’ in prigione. Non riesco a intravedere nessuna sottana, intravedo però uno di quei “grumi di significato” che tormentano l’esistenza e mi chiedo, ma chi in queste opere è la Louise, e chi la Grande Madre? Se volessimo essere brutalmente onesti, a furia di scavare nella memoria, l’artista non ha trovato nulla, ma un archetipo che era da sempre stato lì, e dalle cui ambivalenti implicazioni è impossibile trovare una via di uscita…

Inavvertitamente, però, questa anziana signora che fa da ponte a un secolo, ripescando alcune questioni formali del surrealismo, apre la strada a una modalità operativa che pervade l’opera dei giovani degli anni Novanta, dal più funereo Damien Hirst alla più malaticcia Tracey Emin (con la quale esegue una serie di disegni a quattro mani esposti in mostra). Sembra che alla fine di un lungo percorso storico di superamenti linguistici e conquiste intellettuali, in questo decennio, finalmente, trovino lo spazio per emergere quei lati della psiche umana ignorati e tenuti in sordina (in soffitta), rabbia, tristezza, angoscia, solitudine, senso del lutto, e che per farlo, per emergere violentemente, abbiano bisogno di riappropriarsi furiosamente di ogni aspetto del reale in una idea espansa di scultura, come se il materiale tradizionale dell’arte non bastasse più e, a quell’idea di immaginaria rappresentazione, si sostiuisse una limpidissima presenza.

Quella presenza, la manifestazione tangibile e mostruosa di uno strato rimosso che, palesandosi, ci libera dal suo peso. Grazie Louise, ora sono più leggero!
Mi rimane solo da capire quale sia la provenienza di quelle dannatissime scale…

Galleria Borghese, Roma, Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria, a cura di Cloé Perrone con Geraldine Leardi e Philip Larratt-Smith, fino al 15 settembre 2024.

Museo Novecento, Firenze, Louise Bourgeois In Florence: Do Not Abandon Me, a cura di Philip Larratt-Smith e Sergio Risaliti, Museo Novecento. Cell XVIII(Portrait), a cura di Philip Larratt-Smith con Arabella Natalini e Stefania Rispoli, Museo degli Innocenti. Fino al 20 ottobre 2024.

Tutte le immagini ©The Easton Foundation/Licensed by S.I.A.E., Italy and VAGA at Artists Rights Society (ARS), NY.

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